Mario Agostinelli
“Pretendono che la gente salga su un aereo per il quale non esiste nessuna pista di atterraggio”
(Uhlrich Beck)
1) “RINASCITA DEL NUCLEARE”: CHI, COME, PERCHE’
La prima questione che balza all’attenzione di un osservatore non è tanto il ritorno di un dibattito sul nucleare, dopo un blocco degli insediamenti che data ormai da prima di Chernobyl, quanto la guida energica del plotoncino degli irriducibili dell’atomo da parte del Governo e dell’opportunista gotha economico italiano. Il che lascia pensare che la cancellazione di una decisione popolare assunta con referendum, non sia dettata da una meditazione lungimirante sulla crisi energetica, ma piuttosto da una concomitanza di convenienze politiche (compresa quella dell’umiliazione della cultura rosso-verde nata col rigetto di uno sviluppo quantitativo a qualunque costo), di collegamento acritico tra mito della crescita, consumo di territorio e disprezzo della salute, e, infine, di vocazione autoritaria di un Governo non sottoposto più al controllo dell’opinione pubblica. Se le motivazioni per il ritorno all’atomo hanno una tale origine, nel programma dell’opposizione al centrodestra va allora inscritta con chiarezza la campagna contro il nucleare. Deve quindi diventare manifesta una informazione adeguata sia sul piano politico, che sotto il profilo culturale e scientifico, per rilanciare una intensa mobilitazione.
L’iperbolica affermazione del Ministro Scajola per accredirare una “rinascita nucleare”- da 7 a 10 mila Megawatt da fissione in cinque anni per un costo di almeno 15 miliardi di euro – non serve solo per forzare il contesto, visto che ogni Ministro appena insediato brama dallo stupire il Paese con progetti “muscolari”: pugno duro contro clandestini e Rom, militarizzazione delle discariche, campate di ferro sullo Stretto, ultimatum ai dipendenti di Alitalia, svuotamento dei contratti, caccia ai fannulloni e ai gracili di salute, grembiule agli alunni e decimazione degli insegnanti della scuola pubblica. Ogni forzatura sottende motivazioni “culturali”, in una forma regressiva: in effetti il messaggio univoco è quello della cancellazione della stagione del ’68 e della nostalgia reazionaria di un autoritarismo senza conflitto e di semplificazioni quantitative a dispetto della qualità. Allora, deve preoccupare la passività della reazione popolare, mentre la destra punta al cuore di conquiste e valori, come la sovranità popolare e l’esercizio di una democrazia di massa che, passando per gli anni ‘70, hanno ipotecato un futuro energetico non coincidente con quello voluto dai grandi potentati. Allarmiamoci, quindi, di fronte ai mutamenti già in atto del sentire popolare. Attenti, perché il mito del prolungamento della crescita e della riserva a cui possono continuare ad attingere i ricchi, se si tengono alla larga i poveri nella competizione globale, è parte di un’onda lunga di destra, presente non solo nel nostro Paese. Ed è una suggestione che da noi ha basi di consenso popolare elevate, soprattutto al Nord, agganciandosi a quella secessione dei ricchi e a quella noncuranza del resto del mondo, che la Lega e i “governatori” settentrionali, con l’accodamento benevolo del “PD del Nord”, hanno sparso a piene mani. Sotto questo profilo, lo sconcerto provocato dall’accelerazione della crisi finanziaria, ben più profonda di quanto ci si voglia far credere, la penuria di fonti energetiche impiegabili immediatamente per la produzione delle merci e per i consumi a cui non si vuole rinunciare e la drammaticità del cambiamento climatico, spingono a spacciare per realistico e auspicabile lo scenario di “ecocentrali” nucleari da attivare al più presto e senza intralci. In effetti, ci troviamo oggi di fronte a dilemmi inediti: molte opzioni sui grandi rischi non comportano la scelta tra alternative sicure e rischiose, ma tra diverse alternative rischiose: è il caso dei pericoli del cambiamento climatico combattuti con i pericoli incalcolabili delle centrali nucleari. La propaganda e l’assenza di un’opinione pubblica autonoma e informata, possono giocare un ruolo determinante, dato che le forme odierne del discorso scientifico e pubblico non sono all’altezza di simili valutazioni. Così, per imposizione politica, si possono sottostimare volutamente i pericoli nucleari e amplificare gli effetti della catastrofe ambientale, mettendo in ombra rimedi, come il risparmio e le rinnovabili, che sono invece già a portata di mano. Nella società mondiale del rischio le linee di conflitto sono linee culturali. Tocca al dibattito portare alla luce opposte valutazioni, che stanno nel profondo, che appartengono alla specie prima che all’individuo e non hanno rappresentanza automatica nella democrazia delegata che conosciamo. E poiché un’opinione non è un fatto privato, l’opinione politica, nella democrazia rappresentativa, è una componente della sovranità. Proprio per questo l’accesso e la completezza dell’informazione – a partire dal caso dell’atomo – diventano indispensabili all’esercizio della democrazia.
E proprio su questi crinali sfumati e incerti si muove la “rinascita del nucleare”, concepita per consolidare i poteri attuali e non metterli democraticamente in discussione nella transizione inevitabile verso un paradigma energetico che lascia alle spalle l’era dei fossili.
Berlusconi, da efficiente comunicatore, sta mettendo in gioco paure contro paure ed ha offerto una soluzione irragionevole (il raddoppio delle centrali nucleari nel mondo!), ma economicamente e politicamente più conveniente ai suoi interessi, a quelli della sua parte e alla dimensione culturale del suo potere. E poiché il simbolico conta tantissimo, il Governo ha rilanciato l’atomo introducendo a bella posta il segreto militare sugli impianti energetici e dichiarandoli aree di interesse strategico nazionale. In fondo, penserà il Cavaliere, perché mai un modello che ha dato buona prova di sé col trinomio monnezza – inceneritori – esercito, non dovrebbe funzionare con clima – nucleare – militari?
2) LA DIFFICILE RICOSTRUZIONE DI UNA COSCIENZA POPOLARE
Della scorciatoia dell’atomo va valutata l’estrema pericolosità, il lascito disastroso alle future generazioni, le minacce alla specie, ma anche e in particolare l’effetto di interdizione dello sviluppo e della necessaria diffusione delle fonti rinnovabili. Attraverso il nucleare prendono corpo anche l’ilusione della crescita a tutti i costi, una limitazione della democrazia, minacce di guerra, nonché l’accrescimento dello strapotere finanziario delle lobbies energetiche, che possono rilanciare nella crisi finanziaria le manovre speculative sulle riserve e sui prezzi delle materie prime non rinnovabili, come l’uranio.
Chiediamoci quindi cosa renda possibile che, mentre l’Unione Europea indica nell’efficienza, nella riduzione dei consumi e nella rapida diffusione delle rinnovabili la barra delle politiche energetiche e Al Gore chiede che l’America produca il 100% di elettricità da fonti rinnovabili entro 10 anni, da noi ci si appresti ad imporre in sei mesi la road map del nucleare e della costruzione di rigassificatori, mentre Emma Marcegaglia (Confindustria), Umberto Quadrino (Edison ) Fulvio Conti (Enel), Chicco Testa (Carlyle Group), Giuliano Zuccoli (A2A), sotto lo sguardo benevolo di Colaninno padre e figlio, sono già all’opera, giurando che i loro interessi coincidono con il futuro dell’Italia, o viceversa.
Per contrastare una prospettiva che si sta materializzando per la convergenza di grandi interessi economici e politici ed una insistente campagna di informazione appoggiata dai media, non basterà un mero aggiornamento degli argomenti che hanno portato alla vittoria nel referendum dell’ 87. Tanto più che alcune delle nuove emergenze sopravvenute (l’eventualità di una catastrofe climatica, l’esaurimento entro il secolo delle fonti fossili, l’impennata dei prezzi del petrolio, le accresciute probabilità di black-out, i timori per la crisi finanziaria e la progressiva riduzione del potere di acquisto dei salari) condizionano pesantemente la quotidianità e facilitano la riammissione del nucleare nel novero dei rischi da correre per affrontare l’emergenza.
Scegliamo allora di misurarci al più presto con le novità più rilevanti, da cui potremmo risultare “spiazzati”. Tra di esse due mi sembrano di particolare peso e riguardano una sfasatura nella percezione tra futuro prossimo e remoto.
- ci stiamo abituando per le emergenze a contare il tempo a ritroso: “quanto manca a” (riscaldamento terrestre oltre i 2 °C, scioglimento dei ghiacci polari, esaurimento delle riserve di petrolio etc.). Si tratta di count down che riguardano al massimo il succedersi di due o tre generazioni. Invece, le conseguenze di soluzioni tecnologiche anche dubbie ricadono su generazioni lontanissime: ad esempio i tempi di dimezzamento delle scorie nucleari sono dell’ordine di decine di migliaia di anni e riguardano eredi senza volto e inconoscibili.
- per la prima volta, noi ricchi viviamo in condizioni di stazionarietà se non di declino, ma siamo tentati di protrarre ben al di sopra delle possibilità di cui dispone il pianeta – e almeno per l’arco della nostra esistenza e di quella dei nostri figli – le nostre esclusive condizioni di vita e di consumo. Addirittura, saremmo disposti ad un conflitto intergenerazionale per non affrontare le incognite di una inevitabile transizione verso un modello energetico a minor spreco e a basso impatto ambientale, tanto diverso dal presente quanto necessario per il futuro.
In questo contesto, non certo paragonabile con quello da cui prese le mosse il referendum dell’87, il nucleare si propone come la tecnologia già disponibile che, non intaccando i livelli di vita dei privilegiati e mantenendo inalterato il resto del sistema – stessa rete di distribuzione, analoghe concentrazioni di capitali, più accentuata centralizzazione dell’offerta elettrica, ancora maggiore controllo militare – sarebbe in grado nel breve periodo di assicurare per la popolazione quella crescita che la realtà stessa sembra contraddire. Mantenendo continuità, comando e controllo dell’economia nelle mani degli attuali ceti dominanti,
E’ dunque in un clima di inerzia e in un quadro di alleanze fluide tra poteri e cittadini dei paesi ricchi, ben diverso da quella volontà di cambiamento antagonista e dal basso ancora operante dopo il ’68 per tutti gli anni ’80, che si deve aprire un conflitto che per ora non sembra né profilarsi né orientarsi ad assumere un carattere popolare.
In ragione di queste difficoltà e per il lavoro di “lunga lena” che ci aspetta, propongo qui di seguito alcune riflessioni per ricostruire un consenso largo contro la costruzione di impianti atomici.
3) AFFINARE GLI ARGOMENTI DA OPPORRE AL NUCLEARE
Clima, dispersione di calore e consumo di acqua: emergenze ambientali
Lungo l’intero ciclo di vita dell’uranio, dall’estrazione del minerale alla sua fissione nel reattore, si registrano emissioni di CO2 sì inferiori, ma comunque confrontabili con quelle che accompagnano il ciclo del gas naturale. Sono emissioni connesse all’esercizio di una centrale complessa, ma soprattutto alle fasi relative alla costruzione, all’avvio del funzionamento e al posizionamento in loco del combustibile fissile, che possono avvenire attualmente solo con l’impiego molto elevato (ben più che nelle corrispondenti fasi del ciclo del carbone o del petrolio o del gas) di fonti fossili nell’area di costruzione e in miniera. Inoltre, per motivi di sicurezza, gli impianti nucleari pretendono per l’edificazione enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, materiali che per la loro produzione richiedono carbone e petrolio. Considerando questi fattori nel loro insieme, si calcola che la CO2 emessa nel ciclo completo di un impianto nucleare corrisponda all’incirca al 40% di quella prodotta dal funzionamento per un periodo equivalente di una centrale di pari potenza a gas naturale. Attenzione però: in questo calcolo non è compresa l’energia necessaria per lo stoccaggio finale dei rifiuti, il cui computo non è possibile per mancanza di esempi da analizzare.
L’efficienza degli impianti a energia nucleare è bassa ed è destinata solo alla fornitura di elettricità, che costituisce solo il 15% degli usi finali di energia nel mondo. Nonostante la enorme quantità di calore che gli impianti nucleari disperdono nell’ambiente, perché esso venga utilizzato si richiederebbe la vicinanza di un grande bacino di utenza, cioè di una grande metropoli. È ovvio però che, per motivi di sicurezza, una centrale nucleare non può essere costruita nelle immediate vicinanze di grandi agglomerati urbani o di centri di produzione industriale e gran parte del calore prodotto si disperde in atmosfera.
Un aspetto fortemente critico, sempre taciuto, nel processo nucleare è la grande quantità di acqua necessaria. Per evitare rischi di incidente catastrofico l’acqua ai reattori non può mai essere sospesa, e deve fluire, per asportare l’eccesso di calore, in volumi 10 volte superiori a quelli necessari nelle centrali tradizionali, con dispersione di vapore in aria e ritorno del liquido nel letto a elevata temperatura. Dove le filiere atomiche hanno subito una attenzione continua , uno sviluppo aggiornato e una diffusione massiccia, come in Francia, la crisi idrica si è già manifestata. In questo Paese il 40% di tutta l’acqua fresca consumata va a raffreddare reattori nucleari.
L’inefficacia e la sfasatura temporale di un’impresa dissennata
Pur mantenendo la massima prudenza nell’indicare i tempi entro cui gli effetti sul clima diventerebbero irreversibili (v. analisi dell’IPCC) e le ricadute sull’economia (v. Rapporto Stern) così gravi da poter essere contabilizzate solo con un segno negativo della variazione del PIL, esiste piena concordanza sul fatto che un contenimento significativo dell’aumento della temperatura dell’atmosfera terrestre vada ottenuto non più tardi del 2020.
Quindi, i tempi di risposta delle tecnologie adottate a tal fine non possono essere impunemente contraffatti. L’ENEA stesso ammette che, anche nell’ipotesi superottimistica della “road map” sbandierata da Scajola, la quota di nucleare annunciata arriverebbe a contribuire alla riduzione complessiva delle emissioni solo per un 6% (e oggi l’Italia è lontana da Kyoto oltre 13 punti!).
Secondo l’IPCC, il panel dell’agenzia ONU per l’ambiente, al 2020 saremo in emergenza climatica se non interverranno prima cambiamenti radicali, sia in termini di riduzione dei consumi sia sotto il profilo del blocco delle emissioni di CO2. Con questi tempi ravvicinati il ricorso al nucleare risulta pressochè ininfluente. Infatti, nel caso di un impianto nucleare previsto per 40 anni di durata di funzionamento, occorrono almeno tutti i primi 9 anni di esercizio per pareggiare l’energia immessa nella costruzione e nell’approntamento. Tenuto conto di almeno 4 anni di costruzione e di altri 5 precedenti tra localizzazione e progettazione, un sistema che sviluppa 1 impianto/anno darebbe energia netta positiva solo dal 19° anno (nel piano “Scajola” realisticamente arriveremmo al 2038). Dal 2038 il bilancio energetico per una intera filiera nucleare non andrebbe più in perdita se si costruissero ogni anno il 20% in più di nuovi impianti, impresa improponibile. Se, infine, si tiene conto dell’emissione di Co2 dovuta all’intero ciclo di vita dell’uranio, allora il bilancio energia-emissioni risulta insensato, i tempi di ritorno troppo lunghi, l’impegno finanziario troppo oneroso per tempi di crisi incontrollata come l’attuale.
Il fabbisogno effettivo di centrali: una follia da evitare
Anche se si avesse entro il 2030 come obiettivo quello dichiarato da Berlusconi – e cioè il raddoppio nel mondo delle centrali nucleari esistenti – rimpiazzando anche quelle che andranno a fine vita nei prossimi 20 anni, l’effetto sulle emissioni globali sarebbe solo una riduzione del 5% . Eppure, occorrerebbe aprire una nuova centrale ogni 2 settimane da qui al 2030, spendendo una cifra tra 1000 e 2000 miliardi di euro, scontando un aumento dei rischi legati a incidenti, andando incontro ad una inevitabile proliferazione nucleare e rendendo esplosiva la questione irrisolta delle scorie. Una autentica follia.
Se poi guardassimo oltre il 2030, il nucleare dovrebbe arrivare a pesare per il 20-25% di mix elettrico per poter incidere significativamente e durevolmente sul cambiamento climatico. Occorrerebbero cioè almeno 3000 centrali nucleari in più (oggi sono 439) : 3 nuove centrali in funzione al mese fino a fine secolo, con prezzi alle stelle dell’uranio, in esaurimento ben prima del compimento della mastodontica e insensata impresa.
Sotto un altro punto di vista, ammesso di trascurare per una volta l’emergenza climatica, il fabbisogno reale di energia e la contemporanea scarsità di uranio mettono in discussione proprio quel mito di una crescita inesauribile su cui si è fondata la fortuna del nucleare. Basta fare alcuni conti. Il consumo globale di energia attuale è di 13 TW e si prevede che per il 2050 arrivi a 30 TW. Il deficit previsto, in assenza di riduzione dei consumi, sarebbe quindi di 17 – 20 TW. Anche costruendo una centrale al giorno per 50 anni di fila (!) si otterrebbero, con enormi impieghi finanziari e con effetti ambientali catastrofici, “solo” 10 TW, ma l’uranio sarebbe esaurito ben prima della titanica impresa! La riduzione dei consumi e il ricorso alle energie rinnovabili sono di conseguenza necessari.
Ancor oggi irrisolvibile il problema delle scorie
Quello delle scorie radioattive è tra i problemi più noti in relazione alle centrali nucleari. Per la natura che ci ospita, l’impatto ambientale generato dalla produzione di queste scorie, che inevitabilmente si accumulano nell’ecosistema e graveranno sulle future generazioni per migliaia d’anni, è del tutto inedito.
Non esistono a oggi soluzioni concrete al problema. Le circa 250mila tonnellate di rifiuti radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivi.
Negli Stati Uniti sono immagazzinate, per ora, in contenitori speciali da 10 tonnellate, del costo di 700.000 euro ciascuno. Ogni anno un reattore da 1000 Mw riempie due contenitori, mentre il problema rimane senza soluzioni tecniche definitive, producendo effetti incommensurabili sul piano economico. Sarebbe impossibile affrontarlo ex-novo su scala nazionale e irresponsabile trascurarne le conseguenze. In Italia, tuttavia, nel Governo attuale nessuno mostra di preoccuparsi delle 150 tonnellate annue che verranno prodotte dall’ipotizzato piano nucleare.
L’insostenibilità dei costi del KWh nucleare
Il nucleare è la fonte energetica più costosa che ci sia. Il prezzo dell’uranio è esploso negli ultimi anni, passando dai 20 dollari per libbra nel 2000 a 120 nel 2007 e continuerà a salire in relazione alla sua scarsità. Gran parte del costo dell’elettricità da nucleare è legato al costo di investimento per la progettazione e realizzazione delle centrali, che è almeno doppio di quanto ufficialmente dichiarato, e prevede tempi di ritorno di circa 20 anni. Se a questo si aggiungono anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning degli impianti, le cifre diventano addirittura imprecisabili. Dove il KWh da nucleare risulta apparentemente poco costoso, come in Francia, è perché lo Stato si fa carico dei costi per la sicurezza, per la ricerca e degli inconvenienti di gestione, ma soprattutto di quelli di riprocessamento e smaltimento definitivo delle scorie e delle centrali. E sono proprio queste spese, oggi rimesse in discussione dai governi per la crisi finanziaria, ad aver scoraggiato gli investimenti privati negli ultimi decenni.
4) COMUNICARE ALTERNATIVE DESIDERABILI
Un sistema energetico come quello odierno, fondato sul controllo geopolitico delle riserve di materie prime, su impianti di produzione centralizzati e su grandi reti di trasporto, è connaturato a modelli di produzione, di consumo e di controllo autoritario delle società moderne che trovano il loro compimento nella globalizzazione liberista. Per superarli, va pianificato un passaggio verso stili di vita comunitari, perseguita la sufficienza e la riduzione dei consumi non necessari, instaurati una democrazia partecipativa e un sistema di autogoverno del territorio indispensabili per risolvere la crisi ambientale.
Senza nucleare, più democrazia e tecnologie compatibili con il territorio
Anche se si volesse prescindere dalla tecnologia, le priorità andrebbero ribaltate mettendo al centro vita, giustizia sociale, relazioni virtuose con la natura, valorizzazione dell’interculturalità e della creatività, sovranità popolare. Questo cambio di visuale è incompatibile con la diffusione del ciclo nucleare, che, al contrario, è incurante del territorio e insensibile alle comunità locali, portatore di sprechi enormi con le sue reti lunghe di fornitura che ricoprono l’intero pianeta.
Le reti connaturate alle fonti rinnovabili trasportano assai più risparmio, organizzazione e informazione, che non elettricità a basso rendimento e sono per definizione policentriche, corte e diffuse. I cicli biologico-energetico-naturali che con esse possono convivere e che sarebbero invece minacciati dal consolidamento del modello attuale in seguito alla diffusione del nucleare, vengono chiusi localmente, consentono compensazioni e interattività tra nodi distanti, favoriscono un bilancio controllato di produzione e consumo e l’incontro tra domanda e offerta, sottraendo il comando della catena alla spinta del profitto verso consumi individuali inarrestabili.
La nuova energia, al contrario di quella procurata dalla fissione dell’uranio si può pianificare diffusamente nell’ambito dell’autogoverno comunale e con la partecipazione della popolazione locale, mentre i costi energetici conseguentemente pagati dalla comunità rimarrebbero nel ciclo economico regionale e comunale. Finalmente anche i piani regolatori e i tracciati urbanistici, la dislocazione e la disposizione degli edifici verrebbero ridisegnati sulla base delle scelte energetiche codecise nel territorio: era già così al tempo delle grandi città d’arte prima del ‘700, tutte – ce lo dimentichiamo talvolta – costruite senza contributo fossile e alimentate da fonti solari.
Infine, le tecnologie per le comunicazioni, a partire da Internet, e quelle per lo sfruttamento e la generazione di energia solare sono complementari : l’energia solare potrebbe infatti liberare le tecnologie della comunicazione dal legame obbligato con la rete energetica delle grandi centrali, mentre Internet potrebbe rendere più “intelligente”, cooperante e interattiva la connessione tra i dispositivi alimentati da fonti rinnovabili.
Se oggi è possibile una comunicazione distribuita, è sicuramente più agevole superare un sistema energetico centralizzato o, comunque organizzare con la massima efficienza fonti energetiche territoriali anche discontinue, come il sole e il vento.
Vista l’importanza della posta in palio, se si vuole abbandonare il modello energetico basato su fossili e nucleare, bisogna dare credibilità alle proposte alternative, disegnare una road map per la transizione, stringere le alleanze su cui si regge il cambio di paradigma.
Energia per la vita e una società di pace
L’energia è vita o morte, innanzitutto; non solo potenza, velocità, trasformazione di materia. E’ relazione, pensiero, affetti, respiro, mobilità muscolare: oggetto squisitamente sociale; non solo merce e prezzo economico. Collegare stabilmente l’energia e il diritto ad essa alle basi della vita (e della morte) è insieme una intuizione scientifica modernissima ed una urgenza politico-sociale attuale, che comporta uno spostamento simbolico di non poco conto e che sta alla base di una narrazione potente di cui la sinistra deve impadronirsi.
Invece oggi la parola energia evoca ancora concetti come centralizzazione, militarizzazione, autoritarismo, consumo e spreco, attraversamento distruttivo dei territori, interferenze con i processi vitali. L’energia nucleare sta ancora in questo schema, mentre un passaggio coerente alle fonti rinnovabili romperebbe un quadro statico: esse infatti possono essere scelte e governate democraticamente nel loro mix più efficace, nella loro destinazione e nella loro integrazione col territorio riducendo gli sprechi e senza lasciare scorie ineliminabili.
Raggiungere l’obiettivo UE “20-20-20”, ma in alternativa al nucleare
La risposta dell’Unione Europea alle sfide in materia di energia e ambiente è orientata a cogliere le opportunità derivanti dall’investimento in nuove tecnologie. L’obiettivo sancito dall’Ue (cosiddetto “20-20-20”) persegue entro il 2020 il 20%; di aumento del contributo da fonti rinnovabili, la diminuzione del 20% del consumo energetico e la riduzione del 20% di emissioni di gas serra rispetto al 1990. Se questo è il contesto, il contributo del nucleare alla produzione di energia, non potrebbe che diventare aggiuntivo. Qundi: o i consumi totali esploderanno contravvenendo alle direttive di Bruxelles, oppure, per tenere in piedi il piano Scajola dovremo sacrificare le energie alternative. Non sarebbe comunque possibile e, soprattutto, conveniente, produrre contemporaneamente due sforzi con tipologie così opposte e tanto impegnativi sul piano della ricerca, della politica industriale, della progettazione, della sicurezza, da escludersi l’un l’altro.
5) PER CONCLUDERE…
Una politica energetica alternativa al nucleare è parte ineliminabile dell’opposizione a Berlusconi e del rinnovamento della sinistra. Occorre inquadrarla in una visione qualitativa e coerente, che rompa con il mito della crescita e la previsione di un’Italia terminale di grandi interconnessioni per i flussi di petrolio e di metano e sede di rigassificatori e di impianti nucleari. Una vocazione distruttiva per il nostro Paese, attraversato prima che vissuto, spina dorsale di un sistema fossile e di trasporti destinato a scomparire e perfino zavorrato nelle sue politiche economiche e industriali da una missione concentrata sul vecchio. Spetta quindi alla sinistra e ai movimenti il compito di rompere il cerchio, innovare e porre con coraggio le basi del nuovo edificio, consapevoli che l’età della pietra non è finita per mancanza di pietre.
PER UNA TRATTAZIONE PIU’ ESAURIENTE DI TUTTE LE TEMATICHE QUI ESPOSTE, V. IL BLOG: WWW.MARIOAGOSTINELLI.IT NELLA VOCE ENERGIA