1. Il disordine dell’impresa globale.
Nella competizione a cavallo del secondo millennio la extraterritorialità assunta dal sistema di impresa è responsabile di una sconsiderata e frenetica corsa a riorganizzare i fattori della produzione su scala planetaria per ottenere la massima compressione dei costi a beneficio esclusivo della propria contabilità interna e prescindendo dalla dilatazione spaziale imposta alla catena produttiva e alle filiere dei consumi. Nella globalizzazione in corso non c’è nulla di “naturale”, nel senso corrente di una compatibilità e di una considerazione dei limiti fisici dell’ambiente, bensì prevale una rappresentazione artificiale della realtà della vita e del rapporto tra produzione e biosfera, impostata sulla contemporaneità e sull’annullamento delle distanze. Una visione adatta a chi – il manager assai più del padrone – alla ricerca di astratte e improbabili “performances”, si esercita su modelli e variabili che non hanno né luogo né tempo e che, quindi, nell’era dell’insostenibilità dei gas serra e dell’esaurimento delle fonti fossili, riproducono ancora fino all’estremizzazione i meccanismi della crescita che hanno governato l’intera epoca industriale. Sono proprio i manager (in prevalenza quelli di cultura nordamericana ed in parte anche europea) che nella loro presunzione portano a compimento una visione meccanicistica del mondo, come se della scienza occidentale fossero gli eredi acritici solo di Galileo e Newton, dato che volutamente ignorano le scoperte e le complesse conseguenze del secondo principio della termodinamica, della rappresentazione fragile e controversa del mondo dovuta alla relatività , alla quantistica e alle modernissime scienze della vita. E sono ancora loro, quindi, che dimenticano che i tempi biologici sono incomprimibili, che l’energia si degrada, che una società e la stessa specie umana, nonostante le sirene e la coartazione dell’immaginario operato dai media, tendono ad autorganizzarsi al risparmio in vista della loro felicità e della salute delle loro progenie. Quando Marchionne afferma – letteralmente – che “passa il proprio tempo per il 75% negli Stati Uniti e per l’altro 75% in giro per il mondo”, inconsciamente parla dell’irrealizzabilità del suo progetto, che non per caso ha come corollario un risvolto temporale indesiderabile sull’opposto versante, come il taglio delle pause (mensa!) a Pomigliano e la saturazione (a 90!) dei tempi di lavoro dei suoi operai. E’ con il tempo in cui si produce e consuma e con la sopravvivenza di una natura alimentatrice insostituibile di vita che l’impresa globale deve fare i suoi conti; altro che con ipotetiche date “dopo Cristo” da cui partirebbe l’irreversibile retrocessione del lavoro al livello dei “vasi comunicanti” previsti dalla mondializzazione e indicati da Pirani come “ragionevoli” per la FIOM e come “inevitabili” per i renitenti del referendum di Pomigliano!
Forse è necessario che la nuova narrazione che la politica più avveduta vuole tessere sappia partire dai conflitti che sempre più acutamente attraverseranno la produzione, svelando l’autonomia di soggetti oggi senza voce, eppure centrali per conquistare il cambiamento: parlo degli operai e della formidabile intuizione che la FIOM di Landini, in preoccupante isolamento, ha accreditato opponendosi al diktat della Fiat. Allora, occorre riflettere sulla qualità distruttiva della discontinuità offerta dalla globalizzazione dopo quasi tre secoli di semplice reiterazione anche fuori dei propri confini del modello industriale del Nord del mondo. Un sistema organico, omogeneo, ma localizzabile, aggiornato e perfezionato da “rivoluzioni” ampiamente catalogate da una letteratura sviluppista sotto la sola tipologia della macchina che le ha caratterizzate (la macchina a vapore, il telaio meccanico, il motore elettrico, il computer). Lo iato di fine millennio, per la verità, consiste nell’aver ridefinito il tempo e lo spazio entro cui i fattori produttivi vengono rigovernati dal sistema di impresa: il tempo è diventato quello della contemporaneità e lo spazio quello dell’intero pianeta, “attraversato” prima che abitato o vissuto. Non si tratta più solo di tecnologia e scienza applicata, ma di una interferenza irriducibile con la vita degli esseri umani che producono e consumano. E’ come se lo spazio-tempo dell’impresa si separasse definitivamente da quello reale della vita quotidiana e dai tempi di ricostruzione della natura. L’impresa così, guidata e spinta da una classe internazionale di manager di cultura affine, si allontana dal luogo fisico dove lavoro e natura vengono organizzati e “ordinati” per fornire al capitalista merci e servizi di sua proprietà. Si è persino separata dai luoghi reali di fruizione e di consumo per vivere l’illusione di dominare il pianeta senza alcuna responsabilità verso la riproducibilità della forza lavoro, il consumo di territorio e risorse non rinnovabili, l’emissione di scarti, l’attività di riciclo e riuso dei suoi prodotti. E’ chiaro come in queste condizioni il sistema d’impresa capitalistico multinazionale abbia la necessità “politica” di rivendicare la propria centralità e di liberarsi dai vincoli sociali e ambientali che, ad esempio, una Costituzione come quella italiana pone alla sua “libertà”, intesa come autoreferenzialità dei propri bilanci e vocazione al profitto senza cura dello spreco sistematico e intrinseco di risorse (umane e naturali).
Una separazione resa possibile – e qui sta un altro dei suoi punti di crisi – solo dal basso costo delle fonti fossili (vita e biosfera al passato da consumare al presente), dalla loro “sconfinata” disponibilità e dalla possibilità per un certo tempo di trascurare la vulnerabilità dei cicli naturali alla quantità di trasformazioni energetiche ottenute per combustione di gas, petrolio e carbone. Per certi versi, delle due “sorgenti della ricchezza” analizzate da Marx – lavoro e natura – il capitalismo globale, diversamente dal suo predecessore, ha curato la rinnovabilità della prima al più basso costo possibile, mentre ha totalmente ignorato la irreversibile deperibilità della seconda.
Di conseguenza, per delocalizzare e addirittura deterritorializzare la fase della fabbricazione e massimizzare i profitti reggendo la competizione globale, non si è cercato solo di aggiustare al livello più basso salari e diritti, ma è stato necessario un eccesso di prelievo istantaneo di risorse naturali accumulate nel tempo nelle viscere della Terra (si pensi solo agli aumenti impetuosi di produttività, al trasporto e alla comunicazione a grande distanza) e una infrazione dei cicli biologici (si pensi alle emissioni e alle variazioni di temperatura) che finiscono col minare la vita sul pianeta. In sostanza, l’estensione della produzione – in spazio, intensità, contemporaneità – si è scontrata coi limiti fisici e biologici del pianeta e pertanto la più nota e evidente dimensione sociale del problema posto dall’attuale fase del capitalismo finisce coll’andare di pari passo con quella ambientale, rendendo auspicabile il ridisegno di alleanze ampie per i soggetti del cambiamento e offrendo inedite convergenze alle nuove generazioni.
E’ evidente che un sistema che non tiene in conto la vita e l’ordine sociale è destinato a soccombere di fronte ai conflitti che si aprono inevitabilmente e, quindi, o a negarne la praticabilità con forme di autoritarismo e di negazione della democrazia o a chiedere allo Stato e alla società di accollarsi l’onere di riparazione dei guasti provocati, magari a spese del welfare e dei diritti sociali. E’ quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi a tutti i livelli, fino all’impressionante schieramento che dal Governo ai media e ai sindacati amici sostiene la prova di forza di Marchionne, accompagnandola con l’attacco all’articolo 41 e alla democrazia nei luoghi di lavoro. In fondo, addirittura la sopravvivenza della nostra civiltà e, senza esagerazioni, della specie umana intesa nella completezza e autodeterminazione delle sue relazioni, passa dalla critica radicale di questo modello oggi ai suoi primordi, di questa organizzazione del lavoro che si pretenderebbe senza conflitto, di questa alienazione contemporanea del lavoro e della natura. Oggi a mio parere è di sinistra chi comprende che capitale lavoro e natura non sono attori separati e immutabili di un processo sempre riproducibile e temporalmente illimitato, ma che occorre porsi in ascolto di conflitti che, ovunque sorgano, non saranno mai più né settoriali né unidimensionali. Sono i conflitti reali nei territori e nei luoghi di lavoro e non i modelli meccanicisti e le relazioni matematiche della crescita continua a mettere in luce la specificità della biosfera, i valori della persona e, in una fase di scarsità di risorse, la precedenza della riproduzione e della vita sulla produzione e sull’economia tout court. Una crisi epocale richiede ricette diverse da quelle che hanno provocato la malattia: non dovremmo più accettare che i profitti vengano dalla finanza speculativa, dalla guerra, dalla distruzione dell’ecosistema, mentre tutto il resto scende: occupazione, salario, consapevolezza del consumo e fiducia nel futuro. Senza conflitto, aumenterebbe solo il disordine, la perdita di informazione sul sistema e di controllo dei processi e finiremmo col non capire che l’attacco al welfare dei governi europei che trasgrediscono le costituzioni dei loro paesi, l’accanimento delle multinazionali ad accaparrarsi e commercializzare i beni comuni, il fallimento della conferenza sul clima di Copenhagen, e perfino il “risorgimento nucleare” e il rilancio degli OGM, che affascinano gli scienziati del potere quanto gli oppositori di una democrazia energetica e di una sovranità alimentare oggi a portata di mano, sono tutt’uno con la prova che si sta svolgendo a Pomigliano, a Melfi, a Mirafiori.
2. Auto-petrolio: oltre il limite?
Il binomio auto individuale-petrolio, che ha connotato l’immaginario di intere generazioni e si è inverato non solo nel prodotto più studiato e sperimentato di tutta l’era industriale, ma anche nella punta di più alta di resistenza operaia all’organizzazione capitalistica del lavoro, è condannato oggi a rispondere con successo al mercato solo a condizione che si concentrino elevatissimi volumi di produzione in un numero limitato di imprese e vengano standardizzati su scala sovranazionale i processi di progettazione e fabbricazione, in direzione o di prodotti “di lusso” ad alta innovazione o “di massa” a bassissimo costo. In ogni caso una crescita, pur differenziata e con diverse opportunità, delle due tipologie di prodotto dovrà tener conto dei limiti fisici e spaziali a cui il pianeta è già sottoposto dalla crescita ininterrotta del sistema mondiale dei trasporti. Dal punto di vista dello spazio, Cina, India, Africa ed America Latina hanno sicuramente più chances di consumo di veicoli di quante ne abbia il Nord del mondo, ma gli effetti sulla disponibilità di combustibile e sulle emissioni di gas serra si ripercuoteranno sull’intero pianeta in tempi molto più rapidi della saturazione delle vie di trasporto nei paesi in via di sviluppo. Pur con differenziazioni geografiche e con tempi di transizione difficilmente prevedibili, possiamo dire che il “binomio” del sogno di intere generazioni sta giungendo ad un tramonto senza scampo. Il raggiungimento del picco di Hubbert per i fossili e l’impossibilità di affidare alla forza pura del mercato l’espansione dell’auto individuale, fanno della vettura privata con motore a combustione interna (l’oggetto su cui si concentra ossessivamente l’attenzione della politica industriale in Italia) il primo prodotto della storia capitalistica che mentre si espande impone una sua autolimitazione. Se è così, risulta quasi ovvio che laddove gli elementi di crisi risultano fin d’ora più evidenti, più acuto debba risultare lo scontro tra capitale e lavoro, nel momento in cui rimangono gli unici due contendenti confinati in una arena delimitata e senza sbocchi. Non deve perciò meravigliare che l’attacco di Marchionne e la risposta della FIOM siano stati all’altezza del carattere di classe che la sfida modernissima del settore auto anticipa rispetto ad un futuro mai preso in seria considerazione dal presente della politica, proprio a partire dalla sinistra. Stare coi lavoratori vuol dire anche disegnare subito alternative alla politica economica e industriale che limita il loro potere contrattuale e lottare con loro per liberarli dalla morsa a cui li sottopone il sistema dell’impresa globalizzata, che nel trasporto individuale a propulsione fossile raschia già ora il fondo del barile, spingendo il movimento operaio ad una corporativizzazione a sostegno dell’impresa nazionale in competizione con altre sulla scena globale.
Ma non si tratta, come ho scritto all’inizio, di una crisi della sola auto. Il petrolio che le viene abbinato resta un prodotto strategico, al centro della lotta geopolitica, con problemi che riguardano il controllo fisico e politico delle risorse, e quello strategico delle vie di trasporto. Secondo le proiezioni attuali, nel 2050 il settore dei trasporti sarà responsabile del 97% dell’aumento di consumo di petrolio, risorsa sempre più scarsa. Se non ci saranno cambiamenti radicali, siamo di fronte ad un problema irrisolvibile senza la “silenziosa” e “benedetta” entrata in campo degli eserciti che si chiameranno di volta in volta “per la pace, la democrazia, la civiltà, la liberazione della donna etc. ”. Il problema è che nessun paese al mondo possiede un potenziale di crescita dell’estrazione di barili paraonabile a quello dell’Iran, oggi in buoni rapporti commerciali solo con la Cina e la Russia. Questi fatti chiariscono il lento ma irreversibile slittamento del Medio Oriente verso l’Asia e l’apprensione dell’Occidente per la nuova geopolitica dei fossili e la rinascita russa.
Che fare? Di fronte alle valutazioni degli esperti scientifici sull’esauribilità del petrolio diventa ancora più impellente la scelta del perseguimento dell’efficienza energetica, dell’espansione delle energie rinnovabili e degli investimenti nella ricerca sui combustibili e la trazione elettrica anche per i trasporti . Se gli americani usassero automobili europee, o comunque con consumi come quelle europee, risparmierebbero quattro milioni di barili il giorno, che è l’equivalente della produzione dell’Iran. Se tutta l’area OCSE usasse automobili di ultima generazione, dove con un litro si percorrono 20 Km, il risparmio globale sarebbe pari a 10 milioni di barili al giorno, come la produzione dell’Arabia Saudita, che è il primo produttore mondiale di petrolio, e pari a più del consumo di Cina e India messe insieme. Pesano su tali scelte lungimiranti, oltre alla voglia “egemonica”, i proventi della pesante tassazione che gli Stati operano sul petrolio. Tra il 2000 e 2006 i Paesi del G 7 hanno guadagnato 2310 miliardi di dollari, notevolmente superiori ai 2045 miliardi di dollari introitati dai paesi Opec (esportatori di petrolio), cui vanno sottratti i costi per produzione e trasporto.
Dobbiamo, a mio parere, aver presente tutto ciò quando affrontiamo i nodi del futuro dell’auto o, su un piano più vasto, le questioni della svolta energetica e della green economy. Oltre la questione più aspra portata in scena dalla Fiat, ci dobbiamo convincere che siamo giunti al più acuto conflitto storico tra crescita economica e vita, anche se non vogliamo convincercene, un po’ per pigrizia e un po’ per paura. Bisogna uscir di metafora, anche per ragionare su aspetti ritenuti irrilevanti fino ad ora. A cospetto dei limiti fisici riconosciuti del pianeta, la produzione di qualsiasi bene o servizio, in termini di consumo di materia e di degrado dell’energia, e la fruizione di beni prodotti con fonti fossili (o nucleari) non solo comporta un’opportunità in meno per gli esseri viventi che verranno, ma implica anche l’adesione a un sistema di valori che prescinde dal bene comune proprio quando la proprietà privata non corrisponde più allo sviluppo. Il benessere, la sopravvivenza, la soddisfazione, non si identificano più nel ciclo produzione-consumo che ci viene imposto da un sistema in crisi su molti piani, ma ancora così forte e impenetrabile da impedire la rappresentanza di opzioni alternative e l’avvio di una transizione. Nel caso che stiamo trattando, la proprietà privata dell’auto nega se stessa quando impedisce le funzioni chiave per cui è stata realizzata: la libertà e l’autonomia di movimento. La quantità di proprietari annulla la qualità delle prerogative del prodotto, sia nella fase di sua fruizione, che addirittura in quella di rottamazione (è già in atto nel settore – in imprese avanzate ma non certo in Fiat – una industrializzazione dello smontaggio). Tuttavia i cittadini lavoratori/consumatori/elettori non intervengono affatto sulla congestione del traffico, né sui veleni nocivi emessi se non dopo i blocchi sempre più frequenti e a valle delle emissioni e, nemmeno, sul riciclo e recupero di enormi quantità di materia e energia: rimangono attenti, al più, a sforzi volti a contenere, ma non a riprogettare. E’ evidente invece che si deve spostare la democrazia sulla progettazione della mobilità, piuttosto che confinare la decisione politica su effetti alle cui cause non si è mai ammessi a partecipare. Quello della riprogettazione è il nodo vero del settore auto in crisi e chi lo affronta per primo può essere anche titolato a governare la fase di transizione e di abbandono di un prodotto in superamento. Vale soprattutto, a mio giudizio, per il sindacato, che ha bisogno di rispondere al dilemma tra bisogni e produzione ad un livello internazionale e con una risalita a monte delle politiche industriali dei governi, liberandosi dalla morsa delle singole aziende in forsennata competizione.
3. La via cinese: un’alternativa di breve periodo?
Oggi e’ la Cina che esperimenta una nuova politica economica. E lo sta facendo da 30 anni con successo. Chi legge i giornali o assiste agli oltre 60 programmi televisivi sente ripetere, forse propagandisticamente, che il governo favorisce l’aumento dei salari, spinge verso prodotti piu’ sofisticati, incentiva i consumi interni, investe nelle tenologie “pulite”, industrializza il centro- Asia e lo copre di autostrade e di ferrovie, costruisce gli stadi sportivi di mezzo mondo, impianta ospedali e acquedotti in Africa, stabilisce alleanze economiche e commerciali con la Russia, con i paesi del Sudest Asiatico, con l’India,con l’Australia, chiede a Bulgaria e Ungheria di fare da testa di ponte per la penetrazione in Europa. In sostanza, la Cina sembrerebbe percorrere la strada dell’espansione creando un enorme mercato interno e relazionandosi con il resto del mondo come leader globale e non nazionale e, nel contempo, garantendosi dall’egemonismo bellicoso sempre in agguato negli USA pre-Obama.
E’ evidente che dietro un tasso di sviluppo così alto ci sono scelte di politica economica e strategie, rapporti di lavoro e di classe che non possono essere rimossi, ma vanno invece indagati, provando a cogliere anche le novità di un movimento operaio non così subalterno e piegato come lo si dipinge. E’chiaro che la politica economica e imprenditoriale cinese produce conseguenze sociali molto gravi e che queste possono dare vita a movimenti anche interessanti, non semplicemente raffigurabili nel quadro dell’attivismo “per i diritti umani”; è sicuro che il protagonismo globale cinese rappresenta un fattore internazionale importante e che nei prossimi anni determinerà nuovi rapporti di potere mondiali, certamente economici e politici, senza escludere quelli militari. Ma la questione ambientale è dalla programmazione cinese solo pericolosamente spostata nel tempo e ripiomberà quanto prima sulla testa e sui programmi dei governanti di questo immenso paese.
In ogni caso, è interessante anche dal punto di vista di queste note indagare la “soluzione cinese” di transizione al problema dell’auto: credo in effetti che le sorti delle lavoratrici e dei lavoratori europei del settore dipenderanno anche dal grado di ripresa della lotta in Cina e dalle capacità di visione di classe e di coscienza internazionale del movimento operaio cinese.
Occorre comunque considerare che mentre il “modello di sviluppo Fiat” si balocca sulla bassa produttività addebitandola ai lavoratori anziché agli insufficienti investimenti in ricerca e tecnologia e trovando la soluzione a “tutti” i problemi nell’ulteriore abbattimento del potere di controllo dei Piani d’impresa e del potere contrattuale e dei salari (così comprimendo la domanda interna e quindi aggravando la crisi di sovrapproduzione), l’ultima Direttiva del governo cinese rivolta alle imprese del Paese impone di incrementare la qualità e la tecnologià sia dei prodotti che del processo, mentre si è aperta la strada alle rivendicazioni salariali, gli scioperi si sono moltiplicati e in alcune fabbriche sono stato eletti i delegati di fabbrica. Difficile affermare che questo si stabilizzi come un modello vincente, ma non c’è dubbio che la Cina si ponga come leader incontrastato nel settore a basso costo, senza l’arretramento delle condizioni di lavoro come perno del suo successo.
4. La strada di Marchionne: la rinuncia del potere dei lavoratori.
Il giorno della sua presentazione come Amministratore. delegato Fiat, Marchionne
invitò a “non più concentrarsi sul costo del lavoro che riguarda solo il 7% dei costi di produzione di automobili”. Posizione esattamente rovesciata oggi, perchè si vuole usare la crisi come occasione di ristrutturazioni industriali, di ridimensionamenti produttivi, e sopratutto per puntare ad una nuova e più sofisticata soglia di comando politico sulla forza lavoro con il dichiarato obbiettivo di svalorizzarla al massimo, con la passivizzazione e l’inanità dei lavoratori rispetto non solo i diritti, sia di sciopero che di organizzazione nel sindacato, ma rispetto al loro potere sul piano d’impresa e sull’organizzazione del lavoro. Da quanto scritto in precedenza è questo potere del lavoro organizzato la chiave di volta indispensabile per il cambiamento, che si rivela necessario non solo per l’economia, ma per la vita: una questione di civiltà e di futuro desiderabile che competerebbe costituzionalmente alla rappresentanza democratica sia in fabbrica che nella società, ma che il sistema di impresa tende ormai sistematicamente a negare. La vera “sconfitta” da evitare a Pomigliano – che inciderebbe sull’intero sistema produttivo e panorama economico, politico e sociale nazionale – sarebbe la rinuncia del sindacato a intervenire sulla politica industriale e l’organizzazione del lavoro: una abdicazione che la FIOM ha respinto, ma che la CISL e la UIL hanno avvallato. E con la CGIL che cerca disperatamente una inesistente “terza via”, rischiando di porsi nelle condizioni di reclamare diritti senza il potere sociale che li garantisce, perché si mette sullo stesso terreno e a sostegno degli stessi fini “produttivi” proposti da Marchionne.
La strada di Marchionne ha un futuro breve davanti a sé ed ha ragione Viale a temere un prossimo abbandono della produzione negli stabilimenti italiani. Non si può competere, non solo semplicemente con i costi, ma tanto meno con la funzione del modello cinese in questa fase di transizione. Si tratta, piaccia o no, di un passaggio di sopravvivenza, che i paesi più sviluppati possono affrontare solo nello schema di “decrescita e convergenza”, che diversifica geograficamente obiettivi, compiti e politiche economiche nazionali a salvaguardia, contemporaneamente, delle condizioni ambientali globali e della giustizia sociale. Sotto questo profilo, nel settore auto in tutta Europa – come già stanno provando a fare Volkswagen e Renault, – si deve innanzitutto evitare la sostituibilità fra risorse naturali e capitale, dopo che si è potuto sostituire – a costi sociali enormi – capitale a lavoro. Ma la rivalorizzazione della risorsa umana e il “mantenimento” della natura richiedono scelte che riconvertono prodotti e politiche industriali proprio a cominciare dalla parte più ricca del mondo. Essendo inevitabile in termini fisici la decrescita della produzione al passare del tempo e a partire da dove i consumi sono elevati, occorre – ed è il caso italiano – orientarsi a produrre valore con meno materia, con meno energia e, nonostante ciò, con piena e buona occupazione, aumentando l’efficienza assai più che la produttività dei processi. Per quanto riguarda poi il sistema di consumo, occorre uscire dal criterio per cui sia il valore di scambio ad ordinare le varie alternative e per cui, specularmente alla pretesa di una crescita illimitata dei beni, si debba considerare il consumatore come un individuo mai sazio. Perciò si deve trarre opportunità dalla crisi dell’auto e sviluppare una vera e propria «auto-critica». Sia relativa “all’auto-immobile”in sè, sia relativa a quella inerzia della sinistra e dei movimenti che arriva ai problemi solo a compimento della crisi e intanto vive tranquilla come sempre la subalternità al modello auto-petrolio come regola del globo.
5. Riprogettare e riconvertire
L’auto termica a proprietà individuale, come dimostrato, rappresenta ormai un sistema tecnologico e finanziario obsoleto e anche capitalisticamente debole, ma, soprattutto un vincolo alla libera mobilità personale. Così, allo scenario dell’inquinamento spaziale (si pensi allo stupefacente ingorgo di 100 Km su 9 corsie di questi mesi in Cina!) dobbiamo aggiungere quelli derivanti dall’estensione del modello auto-petrolio a livello mondiale, che, se applicato alla Cina, all’India e a tutti gli stati in via di sviluppo, entra in rotta di collisione con le risorse energetiche del pianeta.
Riprogettare il rapporto fra auto-immobile e mobilità personale significa affrontare un cambio di paradigma, mettendo al centro il tempo speso per muoversi e il costo/km, piuttosto che l’auto. Significa affrontare la forma dell’urbano e la macchina energetica, nonché il rapporto fra spazio e telecomunicazioni, riprogettando lo spazio delle strade, i materiali dei veicoli, le tipologia della trazione, i servizi di telecomunicazione, i servizi finanziari, le regole/norme della mobilità. Uno sforzo in tal senso era stato compiuto dall’ENEA nei confronti della Regione Lombardia a seguito di un accordo sindacale e in funzione della riconversione dell’ex-Alfa Romeo. Io ne sono stato testimone, prima in qualità di responsabile CGIL e poi come coordinatore scientifico del progetto di riconversione verso un “Polo della Mobilità Sostenibile” dell’area di Arese, dove una realistica road map verso la green economy avrebbe riportato in un’area dismessa oltre 7.000 posti di lavoro stabili. Qui è cominciato il disimpegno Fiat dall’auto in Italia, proprio quando una riconversione produttiva praticabile e condivisa dai lavoratori e dal sindacato è restata lettera morta ed è naufragata di fronte alla forza della speculazione immobiliare sui due milioni di metri quadrati su cui sorgevano gli ex-capannoni. Quella è stata la prima sconfitta – dovuta, ed occorre trarne insegnamento, ad una latitanza della politica, all’isolamento del sindacato e a rapporti di forza sfavorevoli al lavoro – che avrebbe invece tenuto insieme presente e futuro, difesa dell’occupazione, transizione e riconversione condivisa e socialmente desiderabile.
Vorrei concludere con una proposta. Si insiste spesso sulla necessità di ritrovare o ricostruire una narrazione comune che recuperi la parte migliore della storia pregressa e delle aspettative future di chi si sente impegnato – come è il nostro caso – sul fronte del cambiamento. Questa narrazione può trovare senz’altro un punto di agglutinazione nel lavoro di elaborazione intorno all’obiettivo della riconversione dell’apparato produttivo: a livello sia locale – soprattutto nei punti di maggior crisi occupazionale – che regionale, nazionale e europeo (agire localmente, ma pensare globalmente). Riguarda sia il fronte del lavoro e della produzione che quello del consumo e della distribuzione, oltreché, ovviamente, quello di una cultura condivisa che attenga al progetto di società. Se il sindacato sceglie di rappresentare questa funzione e questo diritto del lavoro ad essere forza di cambiamento, è possibile, come era avvenuto nel ’68, rimettere a confronto i saperi acquisiti da generazioni umiliate nella loro funzione sociale con le urgenze del mondo del lavoro – le fabbriche che chiudono, o che chiedono di sopravvivere procrastinando produzioni insostenibili, oltre al mondo dell’impresa – in primo luogo quella del terzo settore – ma anche il mondo agricolo e della piccola distribuzione e le amministrazioni locali esposte agli influssi delle mobilitazioni popolari.
Il punto di forza delle esperienza di lotta e di autorganizzazione più rilevanti degli ultimi anni sta nel contatto tra saperi – tecnico scientifici – conoscenze del territorio – crisi settoriali e buone pratiche. Potremmo accettare davvero la sfida dell’applicazione a un contesto definito che ha al centro l’occupazione il potere e i diritti, dei saperi e delle conoscenze acquisite in tutti i campi (energia, mobilità, agricoltura, alimentazione, urbanistica, educazione, gestione rifiuti, mobilità, salute, etc) dove produzione e consumo richiedono un urgente cambiamento. Si tratta di un patrimonio da istruire al più presto, da mettere in relazione con le situazioni di crisi occupazionale e da sottoporre alla verifica e alla valutazione “indipendente” di tutti, a cominciare da un sindacato come la FIOM che ha colto appieno la rilevanza della sfida in corso.