Mario Agostinelli
Strano Paese l’Italia. Nelle due settimane del vertice di Copenhagen la stampa e le TV ci hanno ammonito del fatto che il cambiamento climatico fosse il problema da affrontare con più urgenza: a distanza di un mese chi ne parla più? D’altra parte, se la figura più mediaticamente esposta, il Presidente del Consiglio, sceglie un suo supermercato per riapparire con il viso integro dopo l’incidente di Milano e sacrifica il “partito dell’amore” sull’altare delle leggi ad personam, si capisce che i messaggi con cui governare vanno consapevolmente da tutt’altra parte.
Vorrei riflettere a un mese di distanza su quel che è successo in Danimarca, nell’appuntamento mondiale più seguito dell’intera storia umana. “E’ stato un fallimento” – Questo il commento quasi unanime che ha frettolosamente messo una pietra sopra l’evento. Ma la mia sensazione è che tutto sia stato semplificato nel solito gioco di accuse; anche la Prestigiacomo, nostro ministro per l’ambiente -inesistente al vertice al punto da essere trattenuta dalla polizia locale per due ore in coda senza essere riconosciuta! – ha accusato gli USA e la Cina di aver affossato il vertice in cinque minuti. In realtà, a Copenaghen è successo qualcosa di importante, che interessa il sistema di relazioni e poteri a livello multilaterale e che non riguarda solo il clima, ma l’economia, il commercio e molto altro.
Ma, per prima cosa, occorre sgombrare il campo dalle false aspettative della vigilia del vertice. Chi aveva un minimo di conoscenza delle diverse posizioni mondiali, e non solo di quella europea o statunitense, o cinese, sapeva molto chiaramente che era assolutamente impossibile concludere un accordo vincolante. Non c’è analisi pre-vertice che non lo mettesse bene in chiaro, perchè le posizioni erano troppo distanti e il vertice dei paesi APEC, svoltosi a Singapore a metà novembre, lo aveva già ufficializzato per tutti.
Per prima cosa Europa, Australia e Giappone volevano chiudere l’accordo di Kyoto, che, per inciso, è stato dato come in scadenza ma in realtà non lo è. Questo, ovviamente, perchè questi paesi vogliono un nuovo accordo che coinvolga innanzitutto gli Stati Uniti e gli altri paesi emergenti. Obama, si è scritto abbondantemente, aveva un potere negoziale molto limitato, dovendo fare i conti in casa propria con un Congresso recalcitrante a modificare lo stile di vita americano.
Ma il vero scoglio era e rimane quello del paesi non industrializzati che si oppongono alla fine del protocollo di Kyoto e contestano ai paesi industrializzati di fare troppo poco per ridurre le emissioni, dato che sono in debito e debbono mettersi a dieta, tenuto conto che da qui al 2020 la popolazione del sud del mondo raddoppiera’ mentre la nostra rimarra’ costante.
Tanto per fare due conti, si calcola che dal 1800 al 2050 il pianeta abbia un bonus di emissioni di circa 2.200 miliardi di tonnellate di CO2 (per evitare che la temperatura media superi i due gradi). Sino al 2008 i paesi industrializzati ne hanno emessi 240: se si facesse una divisione pro capite fra gli abitanti della terra si otterrebbe che abbiamo superato la nostra “equa” quota, ovvero che abbiamo un debito rispetto al resto del mondo di 159 miliardi di tonnellate.
I PVS, per farla corta, dubitano delle nostre intenzioni (la volontà di chiudere l’accordo di Kyoto è interpretata negativamente) e pensano che i nostri sforzi per convincerli a ridurre le emissioni siano, per dirla brutalmente, “una fregatura” (il passato depone a loro favore), un modo per limitare il loro sviluppo.
Ai PVS i nostri tentativi di coinvolgerli nella riduzione delle emissioni sono parsi come i “suggerimenti” che Fondo Monetario e Banca mondiale hanno impartito negli anni ’80, pertanto la loro è stata ed è una sorta di guerra in difesa della loro autonomia economica e della loro possibilità di sviluppo.
A Copenaghen è dunque accaduto quello che accadde a Cancun nel corso del vertice WTO nel 2005: i cosiddetti Basic (Brasile, India, Sud Africa e Cina) hanno fatto gruppo e hanno dettato legge dicendo no ad un accordo che considerano non equilibrato.
Pertanto non sono stati gli USA a fare un accordo con la Cina e poi a proporlo al resto del mondo: Obama è intervenuto alla riunione dei Basic senza essere invitato, cercando di evitare quella figuraccia che abbiamo fatto noi europei. Patetico al riguardo l’appello di Barroso due giorni prima della chiusura.
Oggi sul tavolo rimane un accordo fra quattro paesi che il resto del mondo dovrebbe accettare entro il 1 febbraio 2010. Un testo molto scarno che dice che sì mantenere l’aumento della temperatura media del pianeta sotto i due gradi centigradi è fondamentale, ma non stabilisce alcun impegno concreto, prevede che ogni paese lo definisca autonomamente e lo condivida genericamente cogli altri. Promette 30 miliardi di dollari per assistere i PVS nei prossimi tre anni ma senza dettagliare i donatori. Sottolinea la trasparenza da parte dei paesi nel segnalare le rispettive emissioni, ma anche in questo caso limitandosi a indicare come strumento le comunicazioni nazionali che hanno cadenza biennale.
Copenaghen, insomma, aveva un obiettivo irrealizzabile in un mondo che non crede nella cooperazione e nella condivisione degli oneri e dei benefici.
Purtoppo la realtà in cui viviamo è quella di paesi che lottano ciascuno contro l’altro per aumentare il proprio reddito ed incrementare le proprie esportazioni. La preoccupazione prevalente non è quella di limitare i cambiamenti climatici ma casomai di avere accesso a energia a basso costo. Come ha commentato un esperto del settore : “non si tratta di pensare soltanto all’impatto ambientale, ma anche al costo per il consumatore finale, perchè è lui che vota”.
Ma che fare ora?
Va detto che la storia degli accordi multilaterali insegna che questi non anticipano mai i fatti, in questi negoziati nessun paese vuole concedere di piu’ rispetto agli altri. Continuare ad insistere nel tentativo di imporre vincoli alle emissioni appare sterile.
Una analisi firmata da Nicholas Stern il 6 dicembre 2009, segnalava che se i paesi che hanno già stabilito dei limiti alle proprie emissioni con riferimento al 2020, li rispettassero, saremmo vicini a raggiungere l’obiettivo di limitare al 2020 il totale delle emissioni di CO2, equivalenti a 44 miliardi di tonnellate. Per la precisione, il rapporto quantifica gli attuali impegni dichiarati in un target di 46 Gt al 2020: ne mancherebbero da tagliare solo 2 Gt.
Detto in altre parole, se i Paesi più ricchi lo vorranno non sarà decisivo alcun nuovo accordo. Solo la fine del liberismo, che ha guidato anche culturalmente la fine del secolo scorso e continua a dominare le relazioni mondiali può salvare il pianeta, a cominciare dai Paesi del Nord del mondo, che non possono salvarsi la coscienza e mettere la testa sottoterra, come l’Italietta irresponsabile del Cavaliere, che vive di espedienti e di paure anziché di progetti e di speranze. Tutto dipende dalla direzione in cui si muoveranno gli investimenti economici degli uomini al potere. Dai Berlusconi, dai Tremonti e, perché no, dai Formigoni, dalle Bresso, dai Vendola e dalla loro fiducia nella partecipazione dei cittadini e, quindi, dalla loro autonomia o complicità con i poteri forti che da noi sono scivolano verso il nucleare per cercare una via di uscita che lasci tutto inalterato. E la palla torna anche a chi legge: da cosa vorranno e da come si organizzeranno e lotteranno coloro che votano!