Mario Agostinelli, Alternative per il socialismo Genn. 2010
Il Forum, i forum
Il Forum Sociale Mondiale (FSM) compie 10 anni. Nel 2001 circa 20 mila persone si riunivano a Porto Alegre, Río Grande do Sul, Brasile, per la costruzione di “ un altro mondo”. Nasceva il Forum Sociale Mondiale (FSM), che aveva come obiettivo indebolire e decostruire il dominio delle regole economiche imposte da parte dei paesi più ricchi al Forum Economico Mondiale di Davos (Svizzera). In attesa del FSM di Dakar Febbraio 2011 e avendo avuto la fortuna di partecipare a tutti gli appuntamenti del decennio, dal Brasile – sua culla – a Mumbay, Bamako, Belem, Nairobi, provo a riflettere sulle diverse fasi di espansione di un processo innescato a inizio secolo e tutt’ora in evoluzione. Partirei dalla formidabile innovazione prodotta fin dall’inizio nel rapporto tra società e politica, per passare all’estensione e articolazione delle ricadute a livello locale, e concludere sul processo contradditorio in corso, che vede nel Nord del mondo un progressivo ridimensionamento della narrazione deflagrata con Genova, Parigi e Firenze e nel Sud un successo politico in crescita, sostenuto da elaborazioni originali rispetto al bagaglio delle sinistre del XX secolo.
Innanzitutto occorre tornare al contesto in cui maturano gli anni a cavallo del millennio. Bisogna ricordare che dalla fine della Seconda guerra mondiale e con la creazione delle Nazioni Unite, si è affermato in parte del Nord del mondo – e soprattutto in Europa – uno straordinario processo di modernità politica basato sulla lotta per la giustizia sociale e la partecipazione democratica attraverso la realizzazione di principi costituzionali affermati dopo la sconfitta del nazifascismo. L’espansione economica è stata accompagnata da un processo di riforme (compresa quella della terra), sui diritti dei lavoratori, la tutela della salute e dell’occupazione. Il movimento operaio e quello contadino hanno trovato una loro unità nell’estensione delle tutele negoziate ed estese a partire dal mondo industriale, che assorbiva progressivamente la fuoriuscita dall’agricoltura.
L’assemblea generale dell’ONU negli anni ’70 produceva una dichiarazione sul Nuovo Ordine Economico Mondiale, in cui si parlava di “giustizia sociale mondiale” e si riconosceva ai Paesi del Terzo mondo il diritto di aumentare la loro partecipazione nell’economia globale, riducendo i privilegi dei paesi industrializzati.
Per dare un’idea del clima dell’epoca, Roberto Savio ricorda che in una conferenza a Milano nel 1994, il direttore della OMC Renato Ruggero affermava che le fortezze d’Europa, Asia e Stati Uniti si sarebbero presto integrate in un unico blocco economico, che il mondo non avrebbe visto più guerre, ci sarebbe stata una sola moneta, e che l’enorme ricchezza creata dalla globalizzazione si sarebbe estesa al mondo intero, facendo ciò che la teoria dello sviluppo non avrebbe mai potuto fare.
Alle soglie del nuovo millennio, i potenti della terra che si riuniscono a Davos continuano a fingere che le oligarchie che reggono il mondo perseguano un orizzonte di sviluppo valido per l’intero pianeta; a credere che il reaganismo e il thatcherismo che hanno infranto il patto sociale ancorato alle costituzioni del dopoguerra possano sottovalutare il conflitto e negarlo come terreno di democrazia; a convincersi che la caduta del muro di Berlino debba lasciare campo libero all’imperialismo che soffoca i paesi del Sud che si stanno liberando dei regimi reazionari nei vari “cortili di casa”. Al consolidarsi del dominio del pensiero unico, non è un caso che il Forum nasca dall’incontro tra intellettuali militanti del Brasile e nuclei di movimento che definirei “politico-umanitari” – come Attac, Le monde diplomatique, il Forum Mondiale – che in Europa, e in Africa, ma anche nell’America del nord si muovono in totale autonomia culturale contro il neoliberismo. Ad essi si affiancano presto movimenti ambientalisti, pacifisti e organizzazioni di lavoratori attratti da una cultura alternativa e non economicista.
L’idea di partenza è di significare la distanza di fase tra i principi della Carta dei diritti dell’ONU e il predominio dell’economia sulla politica e di riscoprire come la cultura marxista e socialista, radicalmente rinnovate e in fusione con quelle cristiane del terzo mondo siano ancora parte viva della cassetta degli attrezzi per la giustizia sociale. E’ geniale l’intuizione del FSM che si riunisce per la prima volta a Porto Alegre di veicolare mediaticamente la propria immagine allegra, partecipata eppure determinatissima, di popolo variopinto in cammino nei viali del campus dell’università di Rio Grande do Sul, filtrandola per contrapposizione attraverso gli alberghi di lusso di Davos o il grigiore delle Borse schizofreniche delle città “imperiali”. Le televisioni di tutto il mondo danno in contemporanea i due eventi e, di fatto, lanciano irreversibilmente il movimento di Porto Alegre. Appare subito il tratto che contraddistingue il FSM: una soggettività plurale ma convergente, che contrappone un linguaggio popolare e una riflessione di massa al tecnicismo delle formule dei reggitori del mondo, asserragliati in luoghi impenetrabili e protetti dalla polizia. Nasce così nell’immaginario la separazione incolmabile della “zona rossa” dalla democrazia e dai bisogni di giustizia, che rivelerà a Genova, sei mesi, dopo tutta la sua forza simbolica, antipopolare e repressiva.
Con il passare degli anni, il FSM si è affermato conquistando uno spazio nazionale e internazionale, grazie alla partecipazione crescente di persone e il moltiplicarsi di forum Regionali, Nazionali e Locali dalle differenti parti del mondo. I Forum mondiali realizzati in questi dieci anni sono stati differenti l’uno dall’altro, e in ognuno è stata appresa la lezione di quello anteriore. Contemporaneamente, si sono moltiplicati i Forum Regionali ( come quello del Sud est Asiatico nel 2003, quelli Europei – con la quinta edizione a Istanbul nel 2010- e quello Nord Americano- alla sua seconda edizione a Detroit), i Nazionali e i Locali. Si sono realizzate mobilitazioni mondiali significative contemporaneamente in tutte le città nei cinque continenti, a partire dalle proposte che sono state discusse nei Forum, come la grande manifestazione per la pace e contro la guerra in Iraq, nel febbraio del 2003, in cui cinque milioni di persone hanno manifestato per le strade. Questa estrema articolazione del FSM è dettata dalla volontà, in ogni passaggio di consolidamento, di coniugare locale e globale. Ne è nato così non un movimento, ma un “movimento dei movimenti”. Il termine che ha ispirato una riproduzione dei risultati dei vari Forum Mondiali al livello delle esperienze e degli eventi locali è stato il concetto di “altra/o”. Così è penetrato nei vari territori dell’intero pianeta un metodo di analisi dell’alternativa per uscire dalla crisi che dall’inizio e per principio non ammetteva l’esclusione, la via più breve per difendere le prerogative ed i privilegi di una società, come quella europea in declino non per sua scelta e incline fatalmente all’isolamento. Un antidoto formidabile al leghismo dell’Italia del Nord: l’unico racconto popolare, assieme a qualche tenuta del sindacato, che abbia contrastato una cultura dilagante e spesso assecondata purtroppo dai partiti del centrosinistra. Io stesso ho vissuto un’esperienza di forte consenso in un movimento – Unaltralombardia, articolato poi curiosamente a cascata in Unaltramilano, Unaltrabusto, Unaltrapaullo e così via – che ha provato a rileggere, grazie alla rielaborazione e alle intuizioni dei Forum, l’involuzione della regione più neoliberista d’Italia con efficacia e con strumenti sicuramente tanto coerenti quanto innovativi rispetto alla cultura politica prevalente.
IL FSM, come moto di soggettività unite nei propositi e nell’ urgenza di creare le condizioni di possibilità per la nascita di un mondo migliore e più giusto, piomba con fragore su una situazione stagnante in Italia. La politica è allora sussunta da un dilagante pragmatismo. Ma il pragmatismo ha un problema evidente: senza un quadro concettuale nel quale operare, si trasforma in un meccanismo per cui si fa solo ciò che è possibile, e dunque ciò che è “utile”. La politica si concentra sui problemi amministrativi, senza una visione d’insieme della società e senza una scala di valori. Esattamente il contrario dell’approccio del “movimento dei movimenti”. Quella interpretata dal PD che sta nascendo è una sinistra senza identità, che vive in continua polemica con la destra su questioni personali e amministrative. Credo che la sponda data dal Forum al permanere di una sinistra di alternativa sia stato essenziale.
E veniamo alla fase più vicina ai nostri giorni.
Con l’abolizione di ogni controllo sulle banche e con l’ebbrezza neoliberista che ha inventato strumenti finanziari ad alto rischio senza precedenti, l’economia reale di beni e servizi ha perso ogni vigore di fronte alla finanza, che ha visto invece una crescita moltiplicata per venti rispetto all’economia reale. Uno scenario non contemplato e solo in parte previsto dai primi Forum. In questo contesto la relazione tra politica e economia è cambiata drasticamente in un Paese come il nostro. La realtà delle fabbriche, della produzione, non è più il principale punto di riferimento, o, almeno così vorrebbe il crescente divario tra economia e politica. E di fronte a una finanza totalmente globalizzata e priva di meccanismi di controllo, il mondo dello spazio nazionale, le sue leggi e le sue istituzioni, hanno cominciato a perdere sempre più rilievo e consistenza. Si è ridotto il peso della politica, e il trionfo dei valori della globalizzazione è diventato il centro del dibattito politico. A meno che – come ha dimostrato lo straordinario e questo sì storico risultato dei no alla FIAT – riprenda la parola la democrazia, il conflitto, l’affermazione di quei principi costituzionali a cui abbiamo fatto riferimento nel descrivere l’origine dell’esperienza dei forum nel 2001. Allora, anche l’episodio più significativo vissuto dal mondo in questo decennio – la recente crisi finanziaria, che ha smontato il mito della capacità di auto regolazione dei mercati – dà ragione al FSM. I temi discussi dai partecipanti dei Forum più recenti sono declinati dentro una visione che tiene insieme una serie di crisi che vive il mondo, – alimentare, politica, energetica, ecologica. Quella, cioè, che gli indigeni andini hanno chiamato “ crisi di civilizzazione”. E questa è la nuova parola d’ordine che affianca quella di
“ un altro mondo possibile”. Qui però le vie europea, latino americana e africana sembrerebbero procedere a differenti velocità, con una preoccupante assenza di protagonismo della società asiatica: aspetti su cui tornerò nel prossimo paragrafo.
Un bilancio in sintesi
Ripercorrere e sintetizzare le innovazioni di contenuto e di metodo introdotte e assunte nei vari stadi del processo non è semplicissimo e più avanti ricorrerò perciò anche a posizioni espresse da protagonisti di primo piano. L’obiettivo iniziale del FSM era rompere il dominio del “pensiero unico” che si basava su ciò che veniva detto al Forum Economico di Davos: non c’è altra alternativa al mercato come motore e regolatore dell’economia. Centrato sul “sociale” e non sull’”economico”, il primo Forum Sociale Mondiale, è stato organizzato a partire da un’ affermazione : “ un altro mondo è possibile”. Con questo il forum ha riacceso la fiamma della speranza e dell’utopia anche quando la componente di critica del presente prevaleva sul progetto di futuro .
La mobilitazione sociale , nata come lotta “ anti – mondializzazione “, è diventata movimento “ altermondialista”, ossia processo di costruzione di alternative ad una globalizzazione sottomessa agli interessi del capitale. Si sono così progressivamente affermati alcuni orientamenti di base – tradotti in una Carta di Principi sempre più accettata come referenza generale – tra cui il carattere del Forum come spazio aperto, l’orizzontalità nell’organizzazione delle attività, l’auto organizzazione di tali attività, il rifiuto dell’elaborazione di un documento finale unico, la non designazione di dirigenti o portavoce stabili, il rispetto della diversità.
Molte intuizioni degli organizzatori, come l’adozione della regola del consenso nelle decisioni organizzative e la ricerca dell’unità nella diversità, si sono rivelate valide. La partecipazione è stata quasi sempre crescente, dalle 20.000 persone del FSM del 2001 alle 150.000 del FSM di Belem, nel 2009.
Senza dubbio, il processo del Forum sta permettendo sempre di più di tematizzare la costruzione del mondo che vogliamo, e quali valori dovrebbero sostenere le nostre vite per sfuggire a quelli imposti dalla logica neoliberista in prima istanza e dalla struttura capitalista in lunga prospettiva. Contemporaneamente, si sta scoprendo che altre forme di far politica sono necessarie, e che cambiare il mondo implica una molteplicità e un’ enorme varietà di interventi sulla realtà. Comincia a crescere la coscienza dell’importanza di assicurare che i beni comuni dell’umanità non possano essere privatizzati né essere trasformati in merce, come esige invece l’essenza del capitalismo. L’economia solidale, da parte sua, insieme a forme di commercio equo, si sta diffondendo in tutto il mondo e fa parte della risposta locale-globale alla crisi economica e alla divaricazione sociale.
Sebbene ci siano molte regioni del mondo in cui il processo dei Forum ancora non ha una presenza significativa, l’esperienza di questo “ altro mondo possibile” ha influito anche nella scelta di dirigenti politici – almeno per l’America Latina – e sta forgiando gruppi dirigenti – in particolare la emergente leadership delle donne – in Africa. Questo collegamento virtuoso tra democrazia diretta e democrazia delegata sembra non innescarsi invece in Europa, dove, dopo una fase di grande espansione, assistiamo oggi ad una regressione dell’altermondialismo. Diverse sono le ragioni di un effetto così diversificato. Ne provo a formulare qualcuna. La visione eurocentrica e operaia della transizione al socialismo è quella che ha subito la sconfitta più drammatica in questa fase della globalizzazione, mentre la componente contadina residua del vecchio continente ha mantenuto solo una funzione di nicchia, spesso conservatrice. Al contrario, le società del Sud sono mantenute, per effetto dell’espansione imperialista , in uno stato di capitalismo periferico prevalentemente contadino e con la base industriale del lavoro salariato dotata di ancora insufficiente potere contrattuale. Attualmente, a livello globale, è soprattutto la situazione di crisi ecologica a poter offrire alternative capaci di “svegliare” le persone sulla necessità urgente di cambiare i nostri modi di produrre e di vivere. Ed è la percezione dei beni comuni acqua terra aria energia assieme all’emergenza della sete, della fame, della salute dell’accesso alle fonti energetiche, ad unificare prioritariamente un movimento globale legato alla terra e al territorio e che sui diritti e l’autonomia del lavoro è ancora drammaticamente frammentato nelle sue componenti nazionali.
Anche quella che in Occidente viene vista come la crisi delle due “potenze globali” contrapposte di inizio millennio – i “G8+” da una parte e la società civile pacifista e progressista dall’altra – non è altro che l’evoluzione di una interpretazione del futuro del pianeta che sposta il suo baricentro fuori dall’area geografica di Usa Europa e Russia o, addirittura – come si dice con una certa enfasi – transita dalla geopolitica alla biosfera. In definitiva, il “movimento dei movimenti” per una giustizia globale sta attraversando una fase di latenza da noi, ma ha messo in moto altrove nel mondo molteplici cambiamenti, a cui torneremo forse a contribuire quando proprio noi in particolare riporteremo il lavoro e il suo potere al centro del cambiamento. La FIOM sembra da tempo avere l’intuizione giusta per riequilibrare un rapporto autonomo, coerente ed efficace tra movimento dei lavoratori e movimenti altermondialisti, come sta a dimostrare la continuità del suo apporto alla discussione del FSM
Il millenium goal e la prospettiva dei movimenti
Rimandando a illustrazioni più esaurienti e rimanendo solo all’enunciazione di quanto è di interesse per questa trattazione, faccio riferimento ora agli obiettivi del “Millenium goal”. Il loro richiamo serve a misurare la distanza drammatica tra i propositi enunciati dai governi delle potenze mondiali e gli effetti delle scelte neoliberiste che le multinazionali, il WTO e la Banca Mondiale hanno imposto alla politica, in quella asimmetria tra società ed economia che il FSM si è proposto di superare. Si tratta di otto obiettivi di sviluppo sottoscritti nel 1990 da tutti i 192 stati membri ONU da raggiungere entro il 2015. A parte quelli sulla salute, tutti sono al centro di campagne, iniziative e lotte del FSM coordinate su vasta scala. Li ricordo traducendoli in un linguaggio di sostanza: ridurre della metà la percentuale di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno, garantendo una piena occupazione e un lavoro dignitoso per tutti, compresi donne e giovani; assicurare che tutti i ragazzi, sia maschi che femmine, possano terminare un ciclo completo di scuola primaria; promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne; integrare i principi di sviluppo sostenibile nelle politiche e nei programmi dei paesi; invertire la tendenza attuale nella perdita di risorse ambientali; ridurre il processo di annullamento della biodiversità; ridurre della metà la percentuale di popolazione senza un accesso sostenibile all’acqua potabile. Evidentemente, l’assetto politico attuale, che trova modo di registrare i suoi fallimenti ad ogni summit internazionale, non è strutturalmente in grado di orientare risorse, volontà politica e strategie lungo questi assi. Al contrario delle fasi precedenti il capitalismo non è oggi in grado di promettere una riunificazione ed una marcia convergente del mondo nel segno dello sviluppo. Il FSM, al contrario, mette in campo l’unica prospettiva unitaria conosciuta che assicuri un progredire della civiltà nel segno di maggior giustizia sociale e di una sopravvivenza della specie in armonia con la natura. Per valutare le difficoltà, ma anche la tensione in cui si colloca questa prospettiva, riprendo dai verbali redatti dagli osservatori presenti il momento di riflessione con la partecipazione di 35mila militanti (!) di 39 nazionalità organizzato a Porto Alegre un anno fa. Sono innanzitutto emerse divergenti opinioni riguardo al ruolo del Forum dinanzi alle sfide immanenti: c’è chi ne difende il formato originale, quello di uno spazio di dialogo, di elaborazione di proposte e di costruzione di alleanze, e chi ne sollecita la trasformazione in uno strumento di lotta. Come ha evidenziato il leader del Movimento dei Senza Terra João Pedro Stedile, il Fsm si è rivelato ancora incapace di opporsi all’avanzata dell’imperialismo, come pure di contrastare il disegno del capitale di piegare lo Stato ai propri interessi. A sostenere la necessità di un’evoluzione del Forum Sociale Mondiale in direzione di una maggiore incisività politica è anche Éric Toussaint, presidente del Comitato per l’Annullamento del Debito del Terzo Mondo. “Abbiamo bisogno di uno strumento internazionale – afferma in un’intervista rilasciata a Brasil de Fato (28/1) – per determinare le priorità in termini di richieste e di obiettivi: un calendario di azione, un elemento di strategia comune. Se il Forum non lo permette, si deve costruire un altro strumento, ma senza eliminare il FSM” e continuando “ad essere parte attiva del Forum”. Sull’“usura della formula dei Forum” si è soffermato anche Bernard Cassen, presidente onorario di Attac Francia, che la riconduce al “rifiuto volontario” dei “guardiani dell’ortodossia del Forum” presenti all’interno del Consiglio Internazionale di “influire collettivamente sugli attori della sfera politica a partire da una piattaforma internazionale comune”, sottolineando al contrario “la necessità di tendere ponti” verso governi come quelli della Bolivia, dell’Ecuador e del Venezuela che mettono in pratica, “sebbene con alti e bassi, politiche di rottura con il neoliberismo”, coincidenti con quelle espresse dai Forum. Immaginando l’organizzazione del mondo come una serie di cerchi concentrici, ha spiegato Susan George, “il primo e più importante risulterebbe certamente quello della finanza, ora totalmente separata dall’economia reale” (più dell’80% delle attività legate ai prestiti finanziari si rivolge allo stesso settore finanziario anziché alla produzione, alla distribuzione e al consumo). “Il circolo successivo è l’economia, libera di andare dove le imposte e il costo del lavoro sono più bassi”. Finanza ed economia, insieme, regolano la società e ne dettano l’organizzazione, ovviamente non a vantaggio dei cittadini. Per ultimo, viene l’ambiente, inteso come “il luogo da cui estraiamo le nostre materie prime e in cui gettiamo i nostri rifiuti”. In questo quadro, la madre di tutte le sfide è allora “invertire l’ordine di questi cerchi”, in maniera che per primo venga l’ambiente, “visto come dovrebbe essere, cioè come la condizione per la continuità dell’esistenza umana e della civiltà”, poi la società, “democraticamente organizzata in modo che le necessità di base vengano riconosciute e soddisfatte”, quindi l’economia, “organizzata per soddisfare le richieste della società, con imprese di tipo sostanzialmente cooperativo” e infine la finanza, intesa come “strumento al servizio dell’economia”.
Se nella nuova organizzazione del mondo la priorità va assegnata all’ambiente, non può certo sorprendere lo spazio riservato nel seminario alla crisi ambientale. Una crisi che – hanno sottolineato unanimemente i relatori – può essere risolta unicamente attraverso la rottura con il sistema capitalista, ben oltre il rassicurante concetto di “sviluppo sostenibile”: nient’altro che “un modo – ha ricordato Marco Deriu dell’Università di Parma – di fare le stesse cose di sempre con una verniciatura verde”. Il cambiamento, deve essere “un ri-orientamento completo della politica ambientale e dello sviluppo”, superando quell’ossessione per la crescita economica che, come ha sottolineato David Havey della City Universtity di New York, è condivisa anche dai settori progressisti. Non esiste, insomma, un capitalismo verde. In questo quadro, assumono sempre maggiore rilevanza per il movimento altermondialista i concetti di convergenza nello sviluppo (decrescita dei paesi ricchi e crescita plaffonata e convergente di quelli poveri) ed il concetto di bien vivir, diventato, secondo Soto Santiesteban, “un logo che definirebbe qualcosa di simile a un progetto alternativo di civiltà”, un “paradigma di comprensione e di risoluzione di problemi che non hanno potuto essere risolti dal pensiero unico neoliberista, né dalla modernità industriale (del capitalismo e del socialismo reale)”. Un concetto che rimanda al “riconoscimento della terra come essere vivo, Madre, Pachamama”, al diritto all’esistenza di tutte le forme di vita, “all’equità inter e intragenerazionale tra gli esseri umani per l’uso sostenibile della natura”, “al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali”. Insomma al “buen vivir”, prima che alla crescita delle merci e al consumo di natura .
Tra le voci in parte dissonanti e a favore di uno sviluppo delle forze produttive e di una fase di transizione orientata dal movimento, c’è quella di Samir Amin, che propone una complessa combinazione di “capitalismi negoziati”, perchè c’è un bisogno di nuove forze produttive per non mantenere la società in uno stato di povertà oltraggiosa. Sviluppare le forze produttive porta inevitabilmente ad accettare, almeno in parte, i modi di sviluppo capitalistici contro cui debba agire una democrazia concepita non come derivante da elezioni multipartitiche, ma come un processo di democratizzazione della società. “Un concetto di gran lunga più olistico dell’idea di progresso sociale, vissuto e interpretato come prospettiva’ del socialismo”. Ciò avverrebbe, nelle attuali circostanze, riunendo in ogni paese una diversità di forze politiche e sociali, con tradizioni locali storicamente diverse, con forse perfino una leadership, o delle leaderships storiche con ideologie e culture diverse, ma protese all’unità. Una “convergenza con la diversità e nella diversità”, non necessariamente un fronte unico.
Come si vede le posizioni sono molto articolate, anche se concordano nella direzione di marcia. In tutti gli approcci c’è comunque un allontanamento dal settarismo; un allontanamento totale. Ed è in questo spirito di ascolto che l’Africa prende quest’anno l’onere e l’onore dell’organizzazione del confronto periodico di livello mondiale.
Verso Dakar e di nuovo a Genova
Nell’attuale situazione internazionale, il Continente africano sta pagando il più pesante tributo della crisi capitalistica, e per questo si è voluto dare ai movimenti sociali africani l’opportunità di unire le loro realtà e le loro lotte a quelle degli altri movimenti sociali nel mondo e di elaborare delle strategie comuni alternative al sistema economico, politico e ambientale dominante.
Le esperienze accumulate dal 2001 e le lezioni apprese dei differenti movimenti altermondialisti africani daranno un carattere nuovo e di qualità al Forum Mondiale.
Per la seconda volta in Africa, la preparazione del Forum di Dakar – molto più di quanto accadde per Nairobi nel 2007 – sta coinvolgendo diverse realtà, sia dal punto di vista geografico che socio-politico. Negli ultimi due anni, tanti paesi africani hanno tenuto eventi Forum sul loro territorio, coinvolgendo movimenti contadini, pescatori, gruppi di donne, comunità locali: con tutte le difficoltà di un continente difficile da tanti punti di vista, la presenza della società civile e dei movimenti sociali africani sarà questa volta molto più ampia del passato.
Nel mutato scenario internazionale, la relazione sud-sud fra Africa, America Latina e Asia è al centro dell’interesse del Comitato Organizzatore Africano. La presenza internazionale non è prevista in grandi numeri (la delegazione italiana è prevista non superiore alle cento persone), ma sarà fondamentale per rinsaldare relazioni sui fronti comuni (dal movimento per la giustizia climatica, all’economia solidale, da quello per i beni comuni, alle coalizioni degli abitanti, ecc.) e per lanciare campagne e azioni sovranazionali.
Diverse organizzazioni italiane, direttamente o attraverso le reti internazionali di cui fanno parte, sono già al lavoro per promuovere a Dakar eventi e iniziative. Tra queste assume particolare valore la Assemblea Mondiale per la Carta dei Migranti che, con lo slogan “tutti gli esseri umani sono potenziali migranti” si svolgerà nell’isola di Gorè, luogo simbolo della tratta degli schiavi africani. A pochi mesi dall’approvazione e dalla presentazione ufficiale , la carta, scritta collettivamente da migranti di tutto il mondo, con l’obiettivo di affermare il diritto degli esseri umani a muoversi liberamente per il pianeta e a scegliere dove fermarsi, rappresenta una novità inedita. Si tratta di un processo che ha richiesto più di quattro anni di lavoro e ha coinvolto oltre cinquemila persone di tutti continenti. E’ una carta di principi costruita dal basso, dai migranti, a partire dall’intuizione di un gruppo di sans papiers, a Marsiglia, nel 2006. Assieme alla Giornata dell’Africa e della Diaspora, dedicata a iniziative e eventi sul tema delle resistenze africane e della diaspora antica e moderna, costituisce l’aspetto più originale di questo appuntamento.
Questa analisi lungo i primi dieci anni del 2000 si può concludere a buon ragione con un ritorno all’indietro. Dieci anni fa un appuntamento di sei mesi successivo a quello di Porto Alegre si inserì nella dinamica di maturazione della coscienza antiliberista – in particolare delle giovani generazioni – ed ebbe una straordinaria eco in tutto il mondo. Centinaia di migliaia di persone, ragazze e ragazzi in particolare, donne ed uomini di tutto il mondo si diedero appuntamento nel Luglio 2001a Genova per denunciare i pericoli della globalizzazione in corso e per contestare i potenti del G8, intenti a convincere il mondo che trasformare tutto in merce avrebbe prodotto benessere per tutti. Quel movimento diceva “che la religione del mercato senza regole avrebbe portato al mondo più ingiustizie, più sfruttamento, più guerre, più violenza. Che avrebbe distrutto la natura, messo a rischio la possibilità di convivenza e persino la vita nel pianeta. Che non ci sarebbe stata più ricchezza per tutti ma, piuttosto, nuovi muri, fisici e culturali, tra i nord ed i sud del mondo”. Quel popolo fu represso in maniera brutale e spietata e le regole di una democrazia, che sempre prevede la possibilità del dissenso e della protesta, vennero sospese e calpestate. Un ragazzo fu ucciso. Oggi quelle ragioni sono ancora più evidenti, dopo che chi ha determinato una crisi mondiale più grave delle precedenti cerca ancora di approfittarne, rapinando a più non posso le ultime risorse naturali disponibili e distruggendo i diritti e le garanzie sociali conquistate in due secoli di lotte. Al riguardo, risulterebbe estremamente istruttivo rileggere la vicenda FIAT-operai/Marchionne-Fiom in questa chiave di analisi e sarebbe assai promettente consegnare alla ricerca di un mondo diverso possibile la prova di autonomia dei no che si sono levati dalle catene di montaggio di Pomigliano e Mirafiori. Così, l’attacco totale ai diritti – al lavoro e del lavoro, alla salute, all’istruzione, alla libertà di movimento, alle differenze culturali e di genere, la rapina dei beni comuni, la distruzione dell’ambiente, il cambiamento climatico e il saccheggio dei territori diventano un tutt’uno e, finalmente, diversi soggetti antagonisti si possono trovare a camminare su un percorso e con gambe comuni. Unificare le lotte, le rivendicazioni, le pratiche, tessere reti più forti di resistenza, di solidarietà, di costruzione di alternativa: è possibile non stando a casa e chiusi in Italia , ma riabbracciando il movimento mondiale. Se ne sono fatti carico la CGIL, l’ARCI e chi a Genova c’era con due documenti convergenti. Ora che le resistenze e le buone pratiche delineano in tutto il mondo non solo la necessità, ma la possibilità reale di una alternativa credibile, si apre anche per i lavoratori e gli studenti delle nuove generazioni l’occasione di superare il quadro delle compatibilità imposto. Lo si intravvede nei mesi più recenti anche in Italia, dove si fa strada nei settori più avanzati della società e in quelli più lungimiranti della politica il sostegno del pubblico, la valorizzazione dei beni comuni, l’ambizione di una riconversione ecologica dell’economia finanziato da una potente redistribuzione della ricchezza.
Non sarebbe utile osare proporre per il 2015, l’anno di EXPO e della scadenza del Millenium goal, la convocazione a Milano del FSM di ritorno da Dakar e fornire così all’Europa sociale una occasione di riscatto e di reinserimento nel percorso possibile per un mondo diverso?