Conosco la Lombardia dalla mappa delle sue fabbriche, avendola girata in lungo e in largo per oltre venti anni, da segretario dei tessili prima e da segretario della CGIL poi. Ricordo negli anni settanta e ottanta la precisa dislocazione del voto a sinistra in riferimento al radicamento dei nostri delegati, al legame con le sezioni del PCI, alla diffusione della contrattazione aziendale.
Così come ricordo il primo stupore nel 1992, quando una nostra inchiesta sugli iscritti al sindacato rivelava che gli operai delle piccole fabbriche, allora investiti per la prima volta dall’azione negoziale nel settore artigiano, si battevano col sindacato, ma stavano in politica con i padroncini della Lega.
L’azione anche culturale di CGIL-CISL-UIL contro la secessione e il corporativismo territoriale culminerà con una straordinaria manifestazione a Milano e Venezia nel 1997 e farà sparire il sindacato leghista, ma non frenerà lo sdoppiamento di comportamento al voto del lavoro dipendente al Nord. Addirittura, nel 2001registreremo un favore per il centrodestra tra i pensionati lombardi ed una presa della Lega sugli operai anche delle grandi fabbriche. Ma la” solitudine operaia” non era ancora così profonda come quella che si constata oggi e la crisi tra politica e mondo del lavoro si riteneva ancora reversibile.
Martedì mattina, risultati alla mano, sono corso a rivedere la “mia” mappa della Regione: una mappa stravolta rispetto a dieci anni fa, ma tutt’altro che carente di occupazione operaia, densa di opere di braccia immigrate, lacerata da vuoti industriali sostituiti da centri commerciali a dismisura, a riprova di una ricchezza costruita sul debito, sulla riduzione dei diritti per i non nativi, sull’abbandono della manifattura e sullo svilimento del valore sociale del lavoro manuale. Sovrapponendo ad essa la distribuzione del voto, ne ho tratto un’immagine devastante per la sinistra: c’è una correlazione precisa tra i nuclei operai rimasti o tra le concentrazioni di piccole fabbriche nel territorio e la crescita della Lega, il declino del PD e la lenta sparizione della sinistra.
Innanzitutto la crescita della Lega accompagna la redistribuzione delle fabbriche e dei capannoni nel territorio, concentrandosi nelle cinture delle città e nei distretti di nuova industrializzazione. Tra Bergamo città e la fabbrica diffusa tra Zingonia e Treviglio passa dal 18% al 39%. Lo stesso avviene a Brescia (15 punti di differenza tra centro urbano e l’indotto meccanotessile e armiero) e, in misura minore a Varese, solo perchè la città rimane una culla di dirigenti “padani”. Nelle province industriali, il PD sta ovunque tra il 15% e il 19%, senza discontinuità territoriale e la somma di PRC e SL non supera mai il 4%. Invece, a Milano città e nella cintura del terziario, dove ormai gli operai sono netta minoranza, la Lega precipita sotto il 13%, mentre il PD supera il 27% e la sinistra raggiunge il 6%. Nelle province agricole e a minor concentrazione manifatturiera (Mantova, Lodi, Cremona, Pavia) il partito di Bossi oscilla “solo” tra il 18% e il 21%, mentre PD e Sinistra ottengono i loro risultati migliori. Va osservato poi che i partiti di governo mantengono percentuali costanti in tutta la Lombardia, con compensazioni all’interno della loro area, senza travasi verso lo schieramento opposto e che IDV e UDC si distribuiscono uniformemente in tutta la Regione.
Anche l’aspetto simbolico è significativo: Zipponi, leader Fiom nelle liste Di Pietro riceve poche preferenze, mentre un operaio veronese con la camicia verde fa il pieno nella sua stessa circoscrizione e la qualifica “operaio” compare in tutte le liste leghiste alle amministrative, proprio quando Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia, passa alla destra.
Perché questo crollo alle elezioni europee, come se il messaggio del mondo del lavoro fosse da mandare al livello più astrattamente simbolico? Provo a avanzare qualche deduzione. Il sogno di un’Europa aperta, coesa socialmente, multiculturale, appartiene alle generazioni che uscivano vittoriose dalle guerre di Liberazione e a quelle che hanno sostenuto le riforme sociali dopo le grandi lotte del ’68. Erano fasi di espansione e di redistribuzione sostenute da lotte e protagonismo operaio. Oggi la crisi trova una risposta immediata nell’esclusione e la solitudine operaia abbandona a suo favore la solidarietà del passato. Perfino in Europa non si può più escludere l’eclisse della socialdemocrazia, oltre che della sinistra radicale e dei partiti comunisti, come prospettiva strategica da offrire al mondo del lavoro.
Bisogna quindi riflettere con molto rigore sul sostegno popolare all’illusione dell’esclusione per potersi garantire, chiusi nella “fortezza Europa”, il prolungamento di una presunta ricchezza fondata sul debito monetario e ambientale. Si tratta di un miraggio che affascina anche le classi sociali più disagiate e la maggioranza dello stesso mondo del lavoro. E questa delusione colpisce ancor di più, in quanto dall’altra parte dell’oceano la svolta di Obama sta capovolgendo l’involuzione liberista e guerresca di Bush. Forse è questa la constatazione da cui ripartire per tornare a parlare al mondo del lavoro: finchè la crisi epocale, nel silenzio della politica, non riceve risposte strategiche e a dimensione collettiva e non ripassa dal mondo del lavoro, ciascuno si avvita su di sé e le destre e il rifiuto del voto penetrano nel corpo sociale che era e dovrebbe ancora essere della sinistra.
(Terra, 11/06/2009)