Il concetto di crescita decresce nel movimento.
Mario Agostinelli
L’elaborazione del movimento dei movimenti è ad una svolta, per quanto riguarda uno dei fondamenti dell’analisi politica ed economica su cui, sostanzialmente, si erano trovati in accordo sempre i soggetti sociali in conflitto. Si tratta della condivisione o dell’abbandono del concetto di crescita quale desiderabile orizzonte comune entro cui si sono collocate più o meno consapevolmente le lotte antagoniste del lavoro, della liberazione, per l’uguaglianza.
La svolta si è particolarmente percepita a Parigi in sede europea e si è ulteriormente rimarcata a Mumbay in sede mondiale. Nella capitale francese si risentiva di un fatto oggettivamente sconvolgente quale lo sconvolgimento climatico e l’inquietante canicola dell’estate europea del 2003. Nella immensa città indiana sugli innumerevoli seminari tenuti in folti gruppi cosmopoliti si riversava la contraddizione di una incontenibile crescita del prodotto interno lordo di Cina ed India e di una invivibilità delle loro metropoli in trasformazione in cui le organizzazioni sindacali, ambientaliste, femministe si rendono visibili con piattaforme che cominciano ad affermare il diritto alla vita come diritto laico e come emanazione della solidarietà di classe, di specie, di genere, scombinando così le stesse culture che dislocavano destra e sinistra nei paesi poveri sempre su un unico versante per quanto riguardava lo “sviluppo”. E’ stato a Mumbay (così sottovalutato tuttora come straordinario evento dalla pochezza della politica nostrana e dall’eccessiva autoreferenza del movimento italiano) che la questione della decrescita è entrata a pieno titolo nei seminari e nei dibattiti del Forum non più come una colpevole eresia, ma come una via percorribile per far convergere il cammino della giustizia sociale nelle diverse aree del mondo. In India, gli occidentali hanno scoperto una ricchezza delle lotte per l’acqua, per la terra, per la proprietà comune delle sementi, contro le privatizzazioni dei beni naturali, che ha radici profondissime nella cultura locale, ancora immune dall’influenza totalizzante del newtonismo e del positivismo di cui è intrisa la teoria economica delle università europee ed americane. Da qui una grande autonomia rispetto alle ricette del capitalismo delle multinazionali e alle mediazioni delle stesse sinistre dei paesi industrializzati.
Si tratta di una ricerca serissima di risposte, durature nel tempo ed estese nello spazio, alla crisi del concetto quantitativo di “massimizzazione” che ha dominato l’economia classica ed il processo di industrializzazione basato sui combustibili fossili fino alla sua estremizzazione liberista, confermata quando i conflitti con l’ambiente e con la società ne esigevano invece il superamento. Quando Bush afferma che “la crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema” , gli economisti indiani e asiatici, con una rottura di non poco conto con la tradizione della stessa sinistra, al pari di Altvater, Latouche, Ravaioli a Parigi, replicano che “nella decrescita e nel rallentamento” si configura una soluzione ancora da indagare, ma sicuramente promettente. Ho personalmente partecipato all’allargamento su scala mondiale di un “patto sulla qualità e la conservazione dell’energia” promosso da alcuni di noi europei a Parigi, che ha ricevuto consenso solo a patto che i Paesi che oggi dilapidano i due terzi delle riserve energetiche con solo un terzo della popolazione mondiale accettino di ridurre i propri consumi. Sappiamo tutti che una sfida siffatta si vince con più scienza e tecnologia, non con meno, con lavoro più qualificato, con modi di vita e relazioni conviviali, con più socializzazione e più democrazia. Allora la sfida diventa una occasione di riflessione sulla civiltà, sulla solidarietà intergenerazionale, sulla responsabilità rispetto alla specie ed alla natura.
In effetti, l’economia tradizionale non tiene in alcun conto il fatto che materia ed energia entrano nel ciclo economico produttivo per uscirne degradati e con minor valore. E che l’aumento della produttività del lavoro a scapito della produttività della natura che è connaturato al modo di produzione capitalistico e al sistema d’impresa, non crea solo guasti nell’immediato sul piano sociale , bensì si rivela una scelta insostenibile nel lungo periodo.
Perciò, ci hanno detto gli economisti indiani, brasiliani, egiziani, filippini incontrati, essendo inevitabile in termini fisici la decrescita della produzione al passare del tempo, occorre orientarsi a produrre valore con meno materia, con meno energia, con maggiore lentezza, aumentando l’efficienza assai più che la produttività dei processi. Si tratta di un mutamento enorme a livello delle politiche industriali, dell’estensione dell’economia sociale, della riappropriazione del proprio tempo e di una riconsiderazione della riduzione dell’orario di lavoro, della definizione dei beni comuni come l’acqua e l’energia da sottrarre alla commercializzazione ed alla privatizzazione.
Occorre, tra l’altro, convincersi che la produzione di qualsiasi bene o servizio, in termini di consumo di materia e di degrado dell’energia, comporta un’opportunità in meno per gli esseri viventi che verranno dopo di noi. Si tratta di un’estensione intergenerazionale del concetto di “fraternitè et egualitè” a cui la politica che conosciamo, tutta piegata su “libertè” senza responsabilità, non ci ha affatto abituato e che obbliga ad uno spostamento del nostro orizzonte temporale. Siamo oggi costretti a rivedere la nostra concezione dello sviluppo, a sentirci parte di un destino comune con quelle risorse e quell’energia che sono in grado di ordinare il mondo vivente, ma solo a costi sopportabili, limitandone il degrado e consentendone la ricostruzione della base rinnovabile. A fronte del progressivo esaurirsi delle fonti fossili occorrerà fasare sempre di più i tempi della produzione e del consumo a quelli del flusso solare e dei grandi cicli naturali come quello dell’acqua, elemento vitale per eccellenza. E’ in questa consapevolezza ancora abbozzata che si sta sviluppando nel Forum Mondiale ed in quello europeo un dibattito sull’economia del tutto irrituale ed una riflessione verso la “bioeconomia”, una disciplina che ha incontrato nel passato solo sporadiche attenzioni negli ambienti scientifici ed universitari del mondo occidentale. Inutile ricordare come la follia della guerra e della corsa agli armamenti trovino una conferma anche sotto la veste di crimine energetico-ambientale e, quindi, come sia in corso di saldatura la riflessione qui trattata con la maturazione consapevole del movimento per la pace in un intreccio di dimensione etica e politica.