Ho conosciuto Giulio quando era a Roma nel 1970 e usciva la sera dalla Gregoriana per venire con noi tra le baracche di vigna Mangani, dove già lavorava don Lutte. C’era una sede del PCI con un cancelletto con scritto in calce bianca “pace”.
Lo scostavamo e ci siedavamo su sedie sgangherate con i ragazzi e i loro genitori che ci aspettavano. Si leggeva a sprazzi L’Unità, i primi numeri del Manifesto; si sfogliava fermandosi su frasi intercalate dai suoi riassunti, un Senza famiglia pieno di disegni colorati dai bimbi, un don Milani sgualcito, le lettere dal carcere di Gramsci o le Città invisibili di Calvino riposte con cura in un armadietto del pronto soccorso. Intanto si progettava una comunità-quartiere non più invisibile (Non c’erano contatori della luce, le sbarre della ferrovia erano sempre abbassate e bisognava affrontare i binari a rischio, perchè la baraccopoli non era censita) e una scuola con i gabinetti non separati per i residenti e “i vignaioli zozzi”.
Poi Bruna ed io risalimmo a Varese e incontravamo Giulio alle riunioni a cui portava la sua sapienza e la sua visione ampia di un mondo in conflitto da pacificare sotto il segno di una giustizia sociale sempre più lontana. Infine, sempre più radi gli incontri al Punto Rosso, ma sempre più affettuosi e intensi. Fino ad una dipartita che tale non è, per tutto quello che di lui ci portiamo per sempre.”