Le province di Como e Varese sono contigue, ma la loro affinità geografica e la loro comune tipologia industriale, se osservate in profondo, rivelano tratti caratteristici di cultura sindacale e di vocazione produttiva decisamente distinti tra loro. Io le ho frequentate tutte e due: Como da studente fino all’età di lavoro, Varese dal mio primo impiego e dalla mia entrata in CGIL fino ad oggi. Entrambe sono “benevolmente” diffidenti rispetto ad esperienze e culture provenienti da fuori, che accolgono però con un atteggiamento consapevolmente didattico, così che il “nuovo venuto” senta intorno a sé un ambiente che tramanda una identità con cui fare i conti. Identità diverse – e non “svizzere” secondo una definizione superficiale – come accennavo prima. Sia Como che Varese hanno una storia industriale imperniata su una forte presenza tessile, caratterizzata da un protagonismo femminile che ha forgiato quadri dirigenti soprattutto per il sindacato e da una visione internazionale del padronato che ha dovuto fare i conti da sempre con una concorrenza internazionale agguerrita. C’è una presenza di cattolicesimo sociale che stimola un’unità sindacale forse più praticabile che altrove. La sinistra è da sempre minoritaria e, quindi, i suoi partiti e le Camere del Lavoro si strutturano come luoghi dove l’antagonismo e le marginalità hanno automaticamente la loro casa.
Ma dagli anni dell’immediato dopoguerra, con l’abbandono della coltivazione locale del baco da seta, il serico rimane a Como e si specializza nella filiera del finissaggio e della moda, mentre il cotoniero si espande a Varese in grandi gruppi verticali che mantengono sul posto l’intero ciclo. I gruppi dirigenti sindacali comaschi sono meno permeati dalla presenza della vicina Milano, che invece invade il varesotto con una esportazione di quadri che vengono dal movimento studentesco o dalle grandi fabbriche al confine della provincia. La borghesia da una parte rinsalda persino i suoi legami familiari, dall’altra si frammenta con l’entrata in campo di una piccola imprenditoria aggressiva e in fortissima competizione interna.
Capita così a Mario Pescini e a me – un altro Mario – di doverci ambientare in ruoli di prima responsabilità e più o meno negli stessi anni, in luoghi di eccellenza produttiva e in grande evoluzione sociale, con il bisogno di capire, oltre che di organizzare. Diventiamo così, oltre che compagni, amici,. E questo accade quando siamo ancora alla FIOM e le 150 ore mettono in comunicazione le lotte sui ritmi, i carichi, i cottimi, di cui lui era un vero esperto quando era delegato all’ILVA di Piombino.
Di conseguenza, sarà ancor più facile ritrovarci anni dopo in Filtea, con il vantaggio, oltre che di continuare a imparare in “terra di confine”, di trasferire le nostre precedenti attenzioni e conoscenze in una categoria di manodopera soprattutto femminile ed anche per questo tanto formidabile quanto modesta. Troveremo un ambiente eccellente per applicare una comune riflessione alla professionalità, al rapporto uomo macchina, all’organizzazione del lavoro in trasformazione: tutti elementi decisivi nella fase di acuta ristrutturazione che il settore serico (a Como) e cotoniero (a Varese) andavano subendo. Lui – di 16 anni più anziano e con una storia ben più lunga e nobile, che attraversava la fase delle Commissioni Interne, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l’esclusione dalle trattative per i contratti aziendali, fino alla rinascita dell’FLM di cui fu segretario a Livorno – abbraccia subito la proposta di modificare e ridurre l’orario di lavoro a parità di salario per mantenere l’occupazione e fare i conti senza arretrare con la rivoluzione delle macchine di tintoria, stamperia, finissaggio o con le cucine colori computerizzate. Abbiamo fittissimi scambi di valutazioni, come d’altra parte già era consuetudine con altri segretari di Como, come Moretti e prima ancora con Zambra e svolgiamo interventi coordinati sui passaggi di categoria da rivendicare nei contratti per le tinto stamperie ( a proposito di Zambra, ricordo una lunghissima trattativa condotta insieme alla tessitura Martinetta in profonda crisi, dove strappiamo sotto il titolo di “ristrutturazione” nientemeno che la sostituzione di un vecchio Lancia Esatau a rimorchio, che percorreva lentissimo la provinciale tra le fabbriche di Rovellasca e Carnago e, a nostro dire, avrebbe screditato il marchio prestigioso che si portava dappresso sul telone ormai consunto!). La rivendicazione di più occupati e minore orario di lavoro a parità di salario, diventerà lo schema negoziale unitario con cui si incoraggeranno le trasformazioni tecniche e gli investimenti conseguenti rispetto alla possibile obsolescenza ed al trasferimento del settore in Paesi a basso costo del lavoro e, nello stesso tempo, si contratteranno, sotto la leva del governo dei cambiamenti, gli organici, le qualifiche, i ritmi, le assegnazioni di macchinario.
Ma rivendicazioni che toccavano lavoro e vita potevano solo essere partecipate: un’avanzata, o almeno una tenuta, in tempi di ristrutturazione poteva dispiegarsi solo se l’accento si poneva sulle elezioni dei Consigli di Fabbrica, sul potere delle assemblee, sull’attività di contrattazione e sulla crescita di democrazia, che, affinchè sia tale, anche nel lavoro deve essere caratterizzata dal suffragio universale. Si tenga conto che, mentre nel ’69 erano 44.000 i dipendenti tessili che eleggevano delegati unitari, nell’80 essi diventeranno 200.000 con 2.100 Consigli, a fronte dei 2.556 organismi dei meccanici e degli 803 dei chimici. Allora ci chiamavamo FULTA (Federazione unitaria lavoratori tessili e abbigliamento) e non era fuor di luogo.
Di Pescini colpiva la mitezza arricchita da grande fermezza: insomma, una saggezza, una sicurezza di classe – perché non dirlo? – e un plus di riflessione che a noi, entrati nel sindacato dopo il ’68-69, faceva un gran bene anche quando sfottevamo. Comprensivo, ma non remissivo; unitario come quei comunisti che si sentivano interpreti di un paziente viaggio comune in cui però non era in discussione la meta; autonomo al punto da mandarmi un appunto entusiasta quando Trentin scioglie la componente comunista del sindacato, mentre aveva sofferto non poco – confortato sentimentalmente se non politicamente, da Nella Marcellino – l’uscita della CGIL dalla FESM mondiale, approvata in un tormentato direttivo regionale Filtea in Val Taleggio.
Occorre comunque dire che la sua figura politica e sindacale è inscindibile da quella umana: innamoratissimo di Mirella e fierissimo di Dario, due autentici livornesi “espatriati” e subito mandati affettuosamente dai comaschi, come una famiglia di forestieri, a imparare il nuovo mondo di cui entravano a far parte.
Dall’81 il compagno Lusardi lascia la Filtea regionale ed entra in segreteria Mario Pescini. E’ unanime la sua designazione e, mi ricordo, lui fa un breve discorso al nostro Direttivo, in cui rammenta che a Piombino, all’Ilva, facevano le saldature ad arte dei bidoni in cui mettere il petrolio e che non s’era mai verificato che alcuno di questi manufatti perdesse. Forse era per dire che era importante saper far bene il proprio mestiere o forse era orgoglio operaio, ma noi l’avevamo chiamato per far l’organizzatore e questa cosa della piombatura ad arte mi è a lungo ronzata per la testa, senza capire bene perché l’avesse tirata fuori. Al contratto dell’83, a Roma, mi confidò che era un modo per dire da dove veniva e cosa si dovessero aspettare e che neanche ai bidoni l’avrebbe fatta passare liscia. La segreteria Regionale Filtea di allora aveva grande solidarietà interna: Veneziani, Ghezzi, Beschi e poi Poggi, Pescini ed io, avemmo la fortuna di non contrapporre mai le distanze politiche alle vicinanze personali e così crebbe un’amicizia che ci fa stringere attorno a Mario con la certezza ancor oggi di una reciprocità.
Ho l’abitudine di conservare tutti gli appunti di segreteria e i ritagli di giornali di eventi a cui ho partecipato: sono andato a spulciarli per ravvivare oggi qualche percorso che ci restituisca il Pescini solare di molte foto e della intervista che ci è stata mostrata durante la commemorazione. Ricordo come nel 1982 si apra uno dei contratti più difficili, ma più prestigiosi della storia del sindacato tessile. Mentre si svolgono le trattative, la Confindustria dà la disdetta della scala mobile: siamo così impegnati su due fronti. Nella sede di allora in corso Italia, Pizzinato chiede una riunione immediata della categoria: rimaniamo inchiodati dalle 20 di sera alle 5 del mattino, prima a discutere e poi ad organizzare scioperi ed una grande manifestazione. Pescini prima di ritornare nel proprio ufficio, guarda Veneziani e, sapendo cosa gli avrebbe detto l’indomani Del Turco, gli sussurra: “dì che non si poteva che essere tutti d’accordo, sennò toccava dormire senza mangiare rinchiuso per due giorni nella tua stanza”. Ricuciamo tutto rapidamente e annunciamo tre giorni di presidio davanti alla Federtessile in via Borgonovo: canti balli, rappresentazioni, comizi, con Caviglioli Marcellino e Ferrari che concludono in comizi affollati con la sensazione di avere la partita ormai in pugno. Ma la vertenza è durisima e si intreccia con quella per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. All’inizio dell’83, in un fase di stallo, la Fulta decide in una assemblea tormentata di adottare una inconsueta forma di pressione, basata sui precontratti, un’adesione azienda per azienda ad un testo di accordo da far valere al tavolo centrale della trattativa. La nostra segreteria è compatta nel promuovere e proporre questa strada e la pacatezza di Pescini convince anche la parte più riluttante della segreteria nazionale. Per tener fede alla sfida lanciata, in Lombardia si firmeranno 116 precontratti, con una organizzazione fermissima, un livello di comunicazione ammirevole, una tenacia pari al consenso di tutti i luoghi di lavoro. Arrivati a siglare i primi 60 precontratti, facciamo uscire un comunicato stampa. Il giorno dopo entra concitata nella mia stanza Valeria Tamagni , la segretaria, che con la gola secca continua a dire che c’è Berlinguer al telefono. Me lo passa e tutti si addossano alla porta. Il prestigioso e amatissimo segretario del PCI vuole informazioni, è sensibilmente compiaciuto, ha parole straordinarie su quanto accade, dice che vorrebbe finalmente partecipare ad una assemblea dove le donne sono in maggioranza. Quando, chiudendo, saluta assicura che il giorno dopo sarà effettuata una intervista in prima pagina dell’Unità, che puntualmente uscirà di Domenica, giorno di grande diffusione. Esco tramortito e vado di corsa alla stanza di Pescini, l’unico che non si era mosso e che stava spedendo le lettere di convocazione del direttivo. Quando gli comunico che c’era Berlinguer al telefono lui sorride e dice, nell’espressione sospesa che tutti ricordiamo di lui: “deh!”.
Nel 1985 due fatti antitetici ci trovano ancora vicini (e con noi una segreteria e un apparato periferico sempre più saldo). La lunghissima crisi e il definitivo declino del gruppo Cantoni da una parte, la straordinaria vittoria alla Niggeler e Kupfer sull’utilizzo degli impianti: 33 ore pagate quaranta e il rinnovo dell’intera filatura e tessitura con una turnazione anche il sabato e domenica. Queste due vicende, come poi quella della Bassetti, dell’Olcese e del Lanificio di Somma, porteranno la Lombardia ad essere al centro non solo di vicende sindacali, ma di uno sforzo inedito di politica industriale che aveva per posta la più profonda ristrutturazione mai sperimentata di un settore maturo in un tempo tanto breve. Fortunatamente per i comaschi i destini del settore serico non precipitano così repentinamente quanto per il cotoniero altrove: ma ormai Pescini ed io non siamo più stranieri in provincia, siamo con un gruppo agguerrito di giovani compagne e compagni dentro una partita nazionale, se non europea, che intreccia gli schieramenti governativi, le strategie di Federtessile, il futuro di famiglie industriali di notorietà internazionale con la lotta per l’occupazione di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Nasce un anticipo di concertazione, non sulle condizioni di lavoro, ma sulle politiche di settore. C’è tutta la lungimiranza di Nella Marcellino, l’intelligenza di alcuni economisti industriali, la disponibilità di istituzioni e perfino delle curie a far decollare un significativo rinnovamento in direzione territoriale delle politiche sindacali di categoria, di cui si fanno portatori i sindacati tessili e calzaturieri in stretta collaborazione con le Camere del Lavoro. Prende corpo il contratto artigiani di settore, l’accorpamento dei comparti minori, la riforma della cassa integrazione. Insomma un’esperienza che ancor oggi non è conclusa fino in fondo ed è anzi ostacolata dall’accento di classe dei ministri e del governo attuale, che allora non sarebbe stato possibile. Penso a questo quando attualizzo Mario Pescini e a che cosa avrebbe pensato e detto. Ed ho, se mi è permessa, la presunzione di saperlo. Sarebbe certamente soddisfatto dello sciopero dichiarato con cui la CGIL cerca di chiarire che la questione dell’articolo 18 sta soprattutto nel non rinunciare al limite che lo stato pone attraverso l’autonomia della magistratura all’arbitrarietà dell’impresa. Ma vorrebbe anche che tutta la sinistra fosse della partita e che la stessa CGIL non si fermasse a metà in questo scontro, che incarica il lavoro di interessi generali che le destre vorrebbero ancora una volta conculcati.
Questo è, se volete, il mio racconto di una parte di Mario, così vivo e vigoroso da non poter essere ridotto a pochi fogli di appunti scritti in fretta.
Così, per lasciarci come avrebbe fatto lui in occasione di un incontro che pure ci tocca così profondamente e senza necessità di essere seriosi, scherzo – da ultimo – sul fatto che, almeno coi soldi del sindacato, era un po’ tirchio. Quando passai alla CGIL Regionale mi chiese che regalo volessi a ricordo, dato che lui era anche l’amministratore della Filtea. Gli dissi che mi sarebbe piaciuta una borsa, perché avrei dovuto viaggiare. Si recò personalmente nella fabbrica di “borsotte” della bassa Lombardia forse più a buon mercato, ma non certo più alla page: ne ritornò con una 24 ore ricoperta di uno “scozzesino” sul grigio con cui sarebbe difficile andare in posti diversi dal mercato, ma che conservo ancor oggi con il rispetto più affettuoso. Che fosse un “borsotto scozzesino” me lo disse lui quando me lo consegnò con foto e stretta di mano.