Ivan Della Mea, cantautore, poeta e scrittore se ne è andato a 69 anni. Il suo cuore, quello purtroppo vulnerato e in affanno da tempo nel suo grande corpo, ha lasciato da solo quell’altro cuore che vive, che ci ha avvolto straripando e esplodendo nei suoi canti e nelle sue rampogne, straziandoci con la ruvidezza della verità pronunciata senza riguardo a destra come a sinistra.
L’ho amato dal ’68, quando con una chitarra strapazzata con la forza di un militante avido di un futuro senza ingiustizie ci annodava alla storia della Resistenza di Gioan (con “la Ringhera”), anticipava il grande fratello odierno con l’allucinante uomo bianco della società dei consumi (“Io so che un giorno…”) si addolciva improvvisamente con il lamento del licenziato che parla al figlio (“Cara moglie”).
Le canzoni di Della Mea facevano da colonna sonora alle proteste degli studenti e degli operai e parlavano una lingua diretta, al punto da introdurre naturalmente e felicemente i comizi più partecipati e le manifestazioni più intense. Poi, l’ho avuto amico e vicino in tutte le lotte sindacali e nelle battaglie civili, quando la sua prosa diventava più ardita, vicina alla poesia, cantata con la raffinatezza dei fratelli Ciarchi o modulata sotto l’attenzione ammirata di Giovanna Marini.
A Milano ho provato a sentire le sue rampogne seduto all’Arcicorvettocheincormistà – come amava definire la sua seconda casa – in mezzo ai pensionati dello SPI che volevano una CGIL che parlasse di più anche ai loro nipoti o attorniato dai compagni preoccupati che chiedevano già allora che la sinistra marciasse senza sbandamenti, critica e impietosa coi suoi dirigenti, ma unita. Con Gianni Bosio era stato tra i fondatori del Nuovo canzoniere Italiano e dagli anni ’90 era direttore dell’Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino: uno dei personaggi simbolo della canzone militante italiana e del lavoro di recupero e riscoperta della tradizione popolare, che dagli anni ’60 in poi ha rappresentato una appendice musicale della lotta politica.
Ma io lo ricordo in particolare a Piadena, alle feste ricorrenti della “Lega di Cultura”, nel calore di “cante” accompagnate dal suo scuotere la testa quando mi provavo a fare la seconda voce dietro al Fontanella che non sbaglia una nota. Ivan, che è comunista senza tempo e con memoria, non amava i simboli in sé, ma chiedeva che fossero mantenuti in vita da una ricerca e da domande sempre nuove.
Negli ultimi tempi gli piaceva contaminarsi con le culture complesse e preveggenti degli ambientalisti e dei sostenitori dell’austerità e della sobrietà fino alla decrescita, ma mi chiedeva sempre come la potevamo mettere con il mondo del lavoro per superare le contaddizioni con l’eccesso di consumo di risorse naturali e con la continua crescita delle merci da produrre, che la civiltà industriale – operai compresi – aveva dato per immutabili.
Le sue ultime richieste alla sinistra reclamavano una politica “fatta per strada” e un ritorno all’etica. Saremo consapevolmente capaci di raccogliere il grido di Ivan e di tradurne in fatti la disperata urgenza?
- Alcune foto della cerimonia