Negli stessi mesi in cui l’UE proietta sulla futura Costituzione l’immagine mercantile che l’ha fin qui contraddistinta, si intensificano le manifestazioni di identitè del popolo europeo fuori dai binari che i governanti si ostinano a tracciargli. Dal Social Forum di Firenze, attraverso le piazze del 15 Febbraio e del 4 Ottobre, fino agli appuntamenti di Riva del Garda e di Perugia, è un crescere di iniziative territoriali, di progetti che si radicano, di spazi di convivenza che si aprono. L’Europa è ridefinita sia nel superamento della sola dimensione economica che nella ricostruzione di spazi democratici abbandonati dagli stati nazionali quando cedono sovranitè alle oligarchie della globalizzazione liberista. I movimenti, proprio quando intorno a loro sembra ritornare il silenzio dei media e si fa piè impenetrabile il cordone sanitario stretto dai partiti tradizionali, colgono cosè la necessitè di una rivitalizzazione della politica e della promozione di istituzioni partecipative. In questo quadro non si è data ancora sufficiente attenzione allo straordinario scivolare della nave “Gyor†lungo il Danubio a metè settembre, da Vienna per Bratislava, Budapest, Vukovar, Novi Sad, fino a Belgrado. Il primo battello a fare un simile percorso dalla guerra dei Balcani ad oggi, raccogliendo in un viaggio attraverso cinque confini 60 rappresentanti di movimenti, della societè civile, di ONG e di Enti Locali di almeno 15 nazionalitè. Nell’immagine del Danubio come metafora di unèEuropa oltre gli attuali confini, inclusiva, che sa incontrarsi, ascoltarsi, farsi carico dei conflitti che l’hanno lacerata, si è colta la profonditè di quell’anima mitteleuropea tedesca, magiara, slava, romanza, ebraica che le guerre dei nostri tempi hanno cercato di frantumare e che si è ritrovata sotto le bandiere della pace: le uniche a non dover essere ammainate e sostituite ai faticosissimi passaggi di frontiera. E man mano che il fiume si arricchiva dei nuovi affluenti, si raccoglievano esperienze e si riannodavano legami – Dario da Mostar, Dragan da Prijedor, i rappresentanti di Vukovar, Sarajevo, Novi Sad, Prijedor, Zavidovici e di altre cittè – mentre si incontravano ponti distrutti e cittè colpite dalla pulizia etnica: ferite lancinanti per il cuore ricco di un continente incapace di esportare la pace. Un viaggio sul Danubio per cercare unèEuropa smarrita o per iniziare a costruirla dal basso, come si è ripetutamente detto nei seminari fatti lungo il percorso. Per discutere a piè voci di acqua, informazione, reti di municipi, cittadinanza, sviluppo territoriale sostenibile e, soprattutto, di Europa; parlando nei meeting e tra di noi sul ponte della nave nei magici trasferimenti: italiani, serbi, croati, bosniaci, ungheresi, rumeni, macedoni, kosovari ed albanesi, profughi ed ex profughi, cittadini di luoghi dove il conflitto è stato piè duro e feroce, europei della Comunitè, europei in procinto di diventarlo, ed europei in difficile èlista dèattesaè. Ebbene, tutti abbiamo percepito che la ècostruzioneè era giè dentro il viaggio stesso, negli atti di noi tutti: da quelli impegnati nei convegni e nei progetti di cooperazione internazionale, a Corrado, il violinista dei “Destrani Taraf†– unione di nostalgia in dialetto trentino e orchestra in rumeno – ad Alessi il bulgaro tzigano con la sua dirompente fisarmonica e il canto della moglie fascinosa, animatori dell’invincibile lentezza e dell’affascinante silenzio del defluire delle acque. Proprio cosè la musica ed il canto dei Balcani e del Mediterraneo sono stati unèincredibile componente èpoliticaè di questo nostro viaggio; non solo ci ha accompagnato, ma ha gettato ponti tra confini e dogane, disciolto difficoltè ed ostilitè, comunicando dove erano ancora aperte dolorose ferite.
Infatti rimarrè per sempre nel nostro ricordo l’approdo in tarda sera in una Vukovar deserta, dove le macerie urlano ancora e dove sbarcare con dei serbi e proporsi di parlare tutti insieme di democrazia dei mass-media non era impresa facile, al punto che suonare tzigano di fronte a croati nel costume nazionale poteva sembrare una provocazione. L’orchestrina in cima all’imbarcadero, con i suoi strumenti a corda, buttava giè “giri†di accordi cauti e sospettosi, che sono stati prepotentemente aggrediti dalla vitalitè irresistibile del bulgaro e poi travolti dalle comuni radici e dall’insofferenza all’imposizione di confini culturali inesistenti. Cosè il suono della ènemicaè fisarmonica di Alessi, mescolato a quello delle piccole chitarre, ha riportato tra la gente di Vukovar altre memorie e suoni rimossi e, regalandoci una notte di melodie senza rimorsi, ha fatto assai di piè dell’ufficialitè di un protocollo, incapace di stemperare dolori e rancori. Questo viaggio è stato una grande esperienza umana e formativa per tutti i partecipanti e per molti di quelli incontrati lungo le rive del fiume. Ha dato una spinta alla ricomposizione della comunitè, ha visibilmente scosso lèassuefazione ai confini e alle dogane materiali di cui si nutrono le burocrazie degli stati balcanici e rimosso molti dei confini delle coscienze individuali.
Un grande lavoro quello della diplomazia popolare degli amici trentini dellèOsservatorio sui Balcani e dellèICS, determinante e premiato sul campo. Un’azione tenace e lucida, che crede alla riconciliazione e costruisce la pratica della pace dal basso: un risultato che Michele Nardelli, Mauro Cereghini e Annalèisa Tomasi cominciano a vedere realizzato. Ma il viaggio è stato anche un evento politico, unèoccasione unica non solo per i passeggeri per parlare dèEuropa in unèarea strategica del nostro continente, con i soggetti locali piè diversi della societè civile, di movimento ed istituzionali, di misurare le contraddizioni tra loro e con la Comunitè Europea e con le opzioni politiche di ognuno di noi. Sono state piè di 70 le ONG incontrate; assai folta è stata la rappresentanza degli amministratori italiani – con il Trentino e l’Emilia in particolare – e costante la presenza non formale dei sindaci e degli ambasciatori nelle cittè visitate. Tuttavia abbiamo avvertito in modo pesante il ritardo politico culturale del movimento dei movimenti quando sembra ignorare questa realtè nel definire i propri contenuti e nellèaffrontare il nodo attualissimo della costituzione europea. E i compagni ed amici dellèOsservatorio sui Balcani e dellèICS ci concedano di avere provato il timore, nel corso dei diversi dibattiti, di un certo limite nel loro stesso impianto culturale e nella scelta dei loro interlocutori. Tale limite di impianto, tutto centrato attorno alla specificitè territoriale, alla prospettiva locale ed europea senza soluzione di continuitè, alla pur indispensabile rielaborazione dei conflitti divenuti etnici, finisce con lo stemperare il conflitto sociale e politico autentico, che permane come problema irrisolto. Si crea cosè l’equivoco di soluzioni frettolose e di percorsi liberatori, come se l’Europa che c’è fosse la meta cui acriticamente aspirare. Condividendo l’impegno e la prospettiva eccezionali del progetto, si sente ancor piè il rischio che venga sottovalutata la dimensione della politica. E cioè la coscienza di quanto sia duro e contraddittorio tuttora lo scontro in Europa e in America. Di quanto il neoliberismo e il libero mercato non siano categorie ideologiche, ma materialissimi spartiacque politici. Infatti multinazionali e poteri criminali, da noi come nei Balcani condizionano la vita politica, le istituzioni, la guerra, e, per contrastare ciè, occorrono grandi movimenti sociali, partecipativi e contestativi, in grado di misurarsi e confrontarsi con le istituzioni attraverso un conflitto limpido ed un processo democratico tutto da conquistare, come dimostra l’esperienza di questi anni del movimento. Tutto questo sembra un poè rimosso e semplificato nellèagire politico delle ONG e delle associazioni. Occorre porsi la questione di quanto la difesa e lèaffermazione dei diritti fondamentali di una parte delle popolazioni, sia allèEst che allèOvest, si scontra in maniera contraddittoria con lèEuropa, cosè come si sta costituendo e identificando con il mercato, la cancellazione delle tutele sociali e la privatizzazione dei beni comuni fondamentali. Non bisogna poi dimenticare che esiste l’ipotesi dei èGrandiè, fondata sul negoziato ed il compromesso tra i governi nelle segrete stanze, sulle leggi del profitto, su un’autonomia competitiva ma anche collaborativa con gli Stati Uniti, mentre le manifestazioni del 4 ottobre e la Perugia Assisi hanno messo al primo posto il ripudio della guerra, i diritti sociali, lo “ius soli†per gli extracomunitari, la democrazia diretta e la partecipazione. Allora va chiarito da subito che non c’è unèEuropa giè pronta a cui tendere, ma che essa va costruita insieme giè da ora, al di qua e al di lè dei confini tracciati e con l’assunzione della questione dei Balcani come questione centrale e dirimente rispetto a quell’idea di fortezza che è perseguita dai governi della UE ed accettata dalle burocrazie danubiane. Questa indicazione emerge chiaramente dal viaggio, ma non ci sembra scontata nel lavoro che le ONG si apprestano a svolgere, dal momento che nei Balcani spesso gli interlocutori paraistituzionalizzati delle associazioni, in via di diventare nuovo ceto politico, si presentano come acritici adoratori del liberismo e che la loro richiesta dèEuropa, come panacea di tutti i problemi, avviene in realtè con in testa gli Stati Uniti. Tutti questi interrogativi, anche se mai esplicitati, sono inevitabilmente emersi nel percorso danubiano e durante i dibattiti sullèacqua, lèinformazione, la cittadinanza e lo sviluppo dellèEuropa dal basso. Ma non c’è altra soluzione che quella di lavorare in concreto, come abbiamo apprezzato negli incontri intensi e illuminanti organizzati nei dieci giorni, e di impegnarsi, come fa l’Osservatorio sui Balcani, perchè la crescita del movimento e la maturazione della societè civile passi dall’abbattimento anche al suo interno dei “confini d’Europaâ€. A Budapest il dibattito sullèacqua con gli interlocutori del REC, unèassociazione paraistituzionale ambientalista ungherese, è stata unèesposizione di tutti questi interrogativi carichi di contraddizioni. Le centrali nucleari e le dighe sui fiumi, la mercificazione dellèacqua, la privatizzazione dei servizi idrici, sembrano estranee all’ambientalismo che sta consolidandosi ed i movimenti dei cittadini, la volontè delle comunitè locali, non sono nemmeno immaginati. Ci si limita invece alle regole dettate dalla volontè della Comunitè Europea, anche se essa con le sue multinazionali è una testa di ariete su scala mondiale della mercificazione dellèacqua e della privatizzazione dei servizi idrici pubblici. Eppure, alla sera si teneva una manifestazione dei movimenti sociali di Budapest contro le privatizzazioni, in particolare della sanitè, imposte dal FMI e dallèEuropa: una manifestazione di cittadini colpiti nel vivo, non di reduci del socialismo reale.
Nelle discussioni sui media a Vukovar, dove la disgregazione iugoslava ha assunto per la prima volta nel 1991 la forma inquietante della pulizia etnica, si è colta tutta la difficoltè della riconciliazione. Dalla battaglia contro la propaganda della fase precedente si è passati alla necessitè di autogestire l’informazione e, contemporaneamente, di sfuggire al mascheramento della realtè imposto dalle televisioni private: una situazione embrionalmente molto vicina a quella italiana, ma assai poco metabolizzata. L’informazione via Internet o attraverso l’etere supera facilmente i nuovi confini tracciati dalle guerre e le nuove tecnologie possono essere utilizzate per una cultura di convivenza e di pace cosè come per fomentare pulsioni etniche e sradicare le culture meno inclini al consumismo. Quando il prete cattolico nel suo intervento attacca l’Europa per le pressioni che esercita ed impone sui media locali e le ONG per lo scarso rispetto delle culture presenti, è difficile decidere se sia spinto da unèanalisi “no global†o da una rivendicazione identitaria di ispirazione nazionalista. Eppure, se inizialmente accusava l’ONU di aver preso la parte dei Serbi, alla fine esprimeva tutto il suo pessimismo e il suo rincrescimento per un pensiero unico ed un mercato che avrebbero obbligato la sua gente ad entrare da deboli in Europa.
A Novi Sad si sono incontrati i municipi italiani e quelli del sud-est d’Europa. Si è parlato anche di immigrazione e di come i Balcani abbiano anticipato i centri di detenzione organizzando la repressione delle etnie e la discriminazione per nazionalitè e religione. Cosè l’Europa delle cittè si è dovuta misurare con l’incongruenza del suo “processo costituente†requisito da una elite di governanti poco penetrabile alla societè. Ai partecipanti al dibattito, che provenivano da diverse esperienze – amministratori italiani, ONG, ignari ospiti di diverse nazionalitè – è apparsa in tutto il suo stridore la fumositè e la distanza tra gli articoli della futura Carta e l’esperienza solidale da loro svolta sul campo. Non diversamente da come la questione era emersa a Budapest per la difesa dell’acqua come bene comune e similmente a quanto avverrè all’indomani a Belgrado per il ripudio della guerra e per la estensione dello stato sociale.
Due giorni intensi di seminari a Belgrado sui diritti civili e sociali e sulle possibilitè di sviluppo locale autosostenibile, hanno consegnato alle conclusioni finali una riflessione molto articolata ed aperta. Si è trattato di assemblee affollate, con sforzi autentici per superare le difficoltè di trovare un linguaggio comune partendo da esperienze molto diverse e con l’equivoco che l’entrata in Europa sia di per sè la soluzione ad un faticoso processo di ricostruzione che richiede invece memoria, elaborazione autonoma, innovazione autentica, confronto e cooperazione. Forse lo scatto di orgoglio e di amarezza che si è sentito nellèintervento di Rada, unèamica di Sarajevo, che esordisce dichiarando di sentirsi ancora compagna e non disposta a buttare via la storia della Jugoslavia – quella della neutralitè tra i blocchi in armi e dell’autogestione – è profondamente comprensibile. Soprattutto che Rada trovi umiliante che tutti èloroè debbano limitarsi passivamente ad ascoltare la lezione delle istituzioni europee, anzichè contribuire da pari alla loro evoluzione. Ci siamo chiesti infine: quanto il nostro modo di vivere, la nostra cultura, le nostre abitudini, conservano un tratto “coloniale†appena gettiamo lo sguardo verso oriente o verso sud oltre i nostri confini? Quanto poi la nostra “superioritè†ci rende davvero meno multietnici e cittadini del mondo di quel che dichiariamo quando siamo al riparo del nostro benessere?
E quanto sono diffuse le considerazioni di Dario, giornalista croato di Mostar passato a vivere coi mussulmani bosniaci durante la guerra, disincantato e brillante, che rifiuta di vivere da “europeoâ€, dato che vuole vivere da balcanico con i suoi piaceri, i suoi ritmi lenti e sostenibili, la sua rakja?
Mentre ascoltavamo in una serata ancora calda il frastuono affascinante degli ottoni alla confluenza tra la Sava e il Danubio e ci staccavamo con dispiacere da quel meraviglioso intreccio di confidenze, discussioni, dibattiti, concerti e teatri di strada e si fondevano i profumi della zuppa di pesce dell’equipaggio del “Gyor†con le immagini fissate per sempre dei film di Kusturica, capivamo di tornare tutti piè ricchi, grati agli organizzatori per le opportunitè inimmaginate che si sono dischiuse e consapevoli che lèEuropa dal basso, o lèEuropa a piè voci, dovrè accogliere ed ascoltare anche quelle che scivolano sulla corrente del grande fiume e attraversano i suoi ponti di barche assemblati per tornare a riunire anche dopo la guerra.