Modello Formigoni: con l’impresa, contro il lavoro
Mario Agostinelli, Pino Vanacore
Un “simbolo gioioso di una modernità scalpitante di misurarsi con il futuro, il grattacielo Pirelli sorse come l’Araba Fenice dalle ceneri della Brusada[1], a testimonianza di una riciclica risorgenza di quella cultura del capitalismo lombardo che, sul mito della “moralità d’impresa” aveva contribuito a costruire, in più di un secolo di incessanti trasformazioni, l‘immagine di Milano come capitale industriale di un’Italia proiettata verso l’Europa.”[2]. Se il grattacielo Pirelli ha travalicato le intenzioni simboliche del suo autore, l’opera di Gio Ponti è stata anche un monumento all’implicito patto sociale fondato sul tributo del lavoro concreto di donne e uomini che hanno alimentato la crescita della ricchezza con le loro lotte, il rinnovamento delle istituzioni e lo sviluppo della democrazia, unitamente ad eccezionali processi d’integrazione sociale. Questo è stato il terreno (fertile) del pragmatismo riformista milanese. Un riformismo “sincero”, fondato sulle consolidate radici delle organizzazioni sindacali (è lombarda la prima rete delle Camere del Lavoro) e sull’eredità delle società di mutuo soccorso che hanno accompagnato sul territorio l’espansione industriale e l’affermazione dei primi diritti sociali. Riformismo popolare, a contatto con lotte e movimenti di massa anche radicali, ma mai volutamente minoritari, che ha contaminato il nord delle valli bergamasche, varesine e bresciane e la realtà contadina del sud della Lombardia. Un pezzo di storia forse irripetibile, ma capace di proiettare la Lombardia in Europa, attraverso un rapporto nuovo e originale tra la città e la campagna, tra l’industria e quel che rimaneva orgogliosamente contadino. Questa “storia” è il racconto di un modello di amministrazione pubblica efficace e con la consapevolezza del proprio ruolo di intermediazione degli interessi plurali della società.
Nel modello di produzione capitalistico convivono enormi contraddizioni che hanno generato disuguaglianza e sfruttamento. Tuttavia, il capitalismo della Lombardia, più che in altri territori, ha fatto i conti con il mondo del lavoro, in primis con le organizzazioni operaie. L’equilibrio tra società, lavoro, istituzioni e “padroni” è l’esito delle lotte e della contrattazione: dalle “tariffe orarie” del lavoro, all’intuizione egualitaria dell’inquadramento unico, ai diritti sociali collettivi conquistati negli anni ‘70.
È stata la Costituzione il vero collante della società, in particolare nei “solidi” principi sanciti nella prima parte della stessa, negli articoli che riconoscono il valore sociale del lavoro (dove sanciscono il principio di autotutela collettiva e di libertà sindacale, unitamente alla partecipazione). Se la Costituzione tutela il lavoro, all’iniziativa privata si assegna un ruolo importante e sostanziale, ma nei limiti dell’utilità sociale.
Questi principi costituzionali hanno concorso alla crescita economica e all’emancipazione sociale. La Lombardia ha tratto enormi benefici dall’orizzonte delineato dalla Costituzione, fino a diventare un “paradigma” da imitare: locomotiva che trainava il Paese nell’alveo delle democrazie industriali assieme alla democratizzazione del lavoro dipendente e all’affermazione dell’autonomia della contrattazione collettiva; la nascita di una giurisprudenza un po’ più favorevole alla persona debole nel rapporto di lavoro, con il principio del divieto di licenziamento senza “giusta causa; la straordinaria esperienza di autorappresentanza democratica dei consigli di fabbrica alla fine degli anni ’60 che concorse alla nascita dello Statuto dei Lavoratori, fino al collegamento tra scuola e lavoro delle “150 ore” che qui hanno avuto la punta di elaborazione e di frequentazione più alta, risarcendo della scuola dell’obbligo gli immigrati piovuti nelle fabbriche dal Sud.
Mentre il capitale celebra i suoi successi e l’architetto Gio Ponti progetta il Pirellone a distanza di due chilometri dai cancelli della Bicocca, la cittadella operaia dei pneumatici, la capacità di condizionamento della classe operaia si consolida socialmente e politicamente, anche con il rafforzamento del sindacalismo confederale e dei partiti operai, fino ad orientare le trasformazioni sociali. Il ’68 e il’69 in tutta la regione hanno lasciato grandi tracce, trasformando anche il panorama politico e la struttura dei partiti di massa e contribuendo al rinnovamento dei gruppi dirigenti nell’insieme della società, senza metterne in discusione la coesione. La pubblica amministrazione è “contaminata” dalla società e supera la vecchia dimensione formalista e gerarchica, diventando “soggetto” pubblico a tutto tondo capace di sviluppare servizi, integrazione e intermediazione sociale. La Lombardia è ancorata al mercato, ma sembra capace di sintesi originali del conflitto mercato-lavoro, come avvenuto anche nei momenti più difficili come quello dell’autunno caldo (operaio).
Una sintesi che ha “governato e programmato” la Lombardia negli anni più complessi. Quanto è rimasto di questa storia? Oggi si percepisce un disordine generale, evidente nel congestionamento delle strade e nell’inquinamento dell’aria, nella galassia del lavoro precario e servile, negli infortuni mortali nei luoghi di lavoro e sulle strade, nella perversa concorrenza tra pubblico e privato dentro il mercato della salute, nell’insicurezza e nella paura che investe quote crescenti di popolazione.
Forse l’analisi può sembrare tendenziosa se consideriamo che questa è la regione che ha il più alto livello di Pil procapite, ma le contraddizioni che si intravedono in Lombardia (più o meno post-moderna) sono enormi: dalla disarticolazione della grande fabbrica e del fordismo, dai vuoti impressionanti delle aree dismesse (27 milioni di metri quadri!), alla crisi dello stato sociale e della politica incapace di riconoscere la natura del declino e della mancanza di prospettiva. Questa assenza di prospettiva e di progetto non è “intercettata” dalla sua classe dirigente, così intenta ad invocare – pur da fronti politici contrapposti – più poteri, mentre intorno alle istituzioni elettive si allarga il vuoto di democrazia e di partecipazione. Anche questo è il segno della perdita di leadership nella moralità, unitamente allo svuotamento del modello politico-istituzionale originato dal patto antifascista, nato proprio a Milano all’indomani della liberazione del 25 aprile 1945. Uno svuotamento di cui Formigoni e la sua Giunta sono stati consapevoli protagonisti e che la politica non ha capito in tempo, lasciando isolate le lotte sindacali, le battaglie sociali, le resistenze anche nel mondo cattolico.
La Lega negli anni ’90, con la sua irruzione “distruttiva” nella crisi degli equilibri sociali e politici sanciti dalla Costituzione del 1948, è forse il frutto più amaro della perdita di moralità sopra accennata. Una rottura che ha prodotto la disillusione – irreversibile e dolorosa perché toccava proprio gli operai – e l’allontanamento dal modello democratico e che ha determinato una situazione nuova in Lombardia, non capìta da una parte della sinistra che ha rincorso Bossi per lungo tempo come la “pecorella smarrita”. Ma il vero “interprete” dello smarrimento della società lombarda è Formigoni. Egli ha saputo sfruttare magistralmente l’indebolimento del patto costituzionale, alleandosi con la Lega e avallandone le pulsioni peggiori con un po’ di compassionevole perdonismo cattolico, facendolo diventare la base per inaugurare un governo pubblico antistatale, che sottende una ridistribuzione della sovranità ad una pluralità di soggetti privati, differenziati in molteplici identità, dalle quali resta esclusa tuttavia quella che deriva dal lavoro con le sue “conquiste” universali. Il fondamento culturale e istituzionale dell’operazione che Formigoni porta avanti ormai alla terza legislatura sta nella sostituzione del soggetto lavoro con l’impresa e del cittadino che ha diritti con la persona che ha aspirazioni e nella conseguente modifica degli assetti istituzionali con leggi e procedure che ridisegnano la gerarchia dei valori, dei soggetti autonomi, dei diritti inalienabili, della tutela dei beni comuni. Fondamento materiale del programma della Giunta di centrodestra è la possibilità di alienazione di un enorme patrimonio naturale la destrutturazione di un tessuto sociale che aveva consegnato alla generazione attuale conquiste e opere di natura pubblica, amministrate per essere conservate nella comunità e non per essere messe sul mercato e. vendute. Da questa breve analisi appare chiaro come il successo della strategia formigoniana dipendesse dalla sconfitta del mondo del lavoro e dall’indebolimento definitivo del patto che aveva accompagnato la crescita civile, morale, sociale ed economica della Lombardia.
In questo progetto non poteva che andare in rotta di collisione con il cristianesimo sociale delle Acli, con la Fim unitaria e con la Cisl di Antoniazzi e con il magistero di Martini, che sono stati i più irriducibili nemici del modello formigoni all’interno della sua area di provenienza confessionale, almeno fino a quando se la sono sentita di combattere apertamente.
Formigoni ha implementato un sistema di relazioni istituzionali “comunitario”, che affianca il pubblico e, paradossalmente, lo allarga, ma privandolo del suo ruolo storico, cioè quello di promuovere universalismo e uguaglianza rimuovendo i vincoli di ordine economico, sociale e politico assegnatogli dalla Costituzione. La concezione di comunità è quella integralista e confessionale di Comunione e Liberazione, supportata dalla formidabile macchina lobbistica ed economica della Compagnia delle Opere, priva del concetto universale di bene comune, che porta a divisioni e articolazioni del corpo sociale anzichè a sintesi. In un lucidissimo articolo di Repubbica riferito al conflitto attuale riguardo alle coppie di fatto, Zagrebelesky individua bene il limite, ma anche l’attrattività di un pensiero che si può estendere per analogia alla strategia sociale-istituzionale del formigonismo. “Sappiamo – scrive – che l’etica della carità si addice alle piccole comunità, alle cerchie legate da rapporti vitali, sperimentabili personalmente. Penso al tema dei beni collettivi condivisi e protetti nelle piccole comunità (come la comunità rurale). Nella società attuale, questa prossimità non esiste. Cos’è che puo garantire l’affermazione di “limiti” come principi fondanti della convivenza? Sicuramente l’acquisizione soggettiva del bene comune come valore, ma anche e soprattutto la traduzione di questo valore in un principio di legalità”.
Proprio quel principio che è quotidianamente attaccato da Formigoni, che, come Sarkozy in Francia, si definisce il Presidente di tutti, ma non ha nel suo orizzonte una società di eguali ed una Regione di tutti. Ecco perché non si può parlare della Lombardia prescindendo dal modello Formigoni.
Un modello regressivo sul piano democratico, che osteggia la Costituzione repubblicana, difende la devoluzione e aggira la legge dello Stato. Il paradigma è nel campo sanitario, prima con la L.R 31/97 che ha sancito la nascita di un modello di sanità diverso da quello nazionale ed ha posto le basi per un ampio processo di svuotamento del pubblico, tutt’ora in corso con l’accreditamento generalizzato nel pubblico delle strutture private (ospedali e centri diagnostici), assieme alla depubblicizzazione delle IPAB (in maggioranza enti erogatori di servizi per gli anziani), alla trasformazione degli IRCCS (gli istituti di ricerca e cura in campo sanitario) in fondazioni di diritto privato, avvenuta in tempi recentissimi e con la sola opposizione di Rifondazione Comunista.
Ma qual è il paradigma formigoniano? È la sussidiarietà, è la solidarietà non gratuita, senza diritti imprescindibili, assicurati dallo stato in prima persona. Formigoni sottolinea il binomio tra federalismo e sussidiarietà orizzontale, forzando il campo dei rapporti tra Comuni, Province, Regioni e Stato allo scopo di incidere, senza alcuna preoccupazione dal lato perequativo, sulla questione dei rapporti tra autonomia dei privati e titolarità pubblica. L’intervento pubblico statale sopraggiunge solo quando manca o è insufficiente l’iniziativa privata, mentre i lavoratori e i pensionati svaniscono come categorie portatrici di diritti. Il potere pubblico diventa strumento solo per stimolare le energie vitali presenti nella società, cioè rinuncia ad avere un ruolo soggettivo diretto di garanzia e di tutela. Se la solidarietà ha un fondamento (centralità) nella persona e nella famiglia, questa si manifesta con le risorse pubbliche dei “buoni” e “voucher”, cioè la pubblica amministrazione non eroga servizi, ma reddito. Ciò che è in corso in Lombardia, in definitiva, è il tentativo di omologazione di una intera struttura istituzionale ad una ideologia introdotta nel secolo passato dalla Chiesa, forse impaurita dalla laicità dello stato sociale e incentivata oggi, con la crisi del welfare, da una parte della Chiesa più conservatrice, come Comunione e Liberazione.
Vista in questa ottica, l’iniziativa di Formigoni di realizzare oggi un federalismo differenziato, competitivo e a geometria variabile, rappresenta la sintesi del suo progetto e la sfida più alta per tutto il Paese. Formigoni rivendica maggiori poteri e autonomia, purtroppo consentita dalla riformulazione del titolo V della Costituzione, con lo scopo di affermare la propria ideologia in ogni campo del pubblico “non statale”. Per questo motivo la Regione rifiuta il ruolo di holding di un sistema pubblico integrato, per ergersi, invece, come interlocutore principale e privilegiato dei soggetti della sussidiarietà orizzontale, imprese e privato sociale, a discapito degli enti locali e, per contrappasso, a detrimento del soggetto sociale rappresentato dal lavoro.
Ma quale è il bilancio di oltre dieci anni di picconate senza clamore all’impianto del patto sociale della nostra Costituzione?
La competizione, tra impresa e lavoro, tra privato e pubblico, così come è stata intesa e agita, sta portando la nostra regione alla rovina. Non siamo più la locomotiva del Paese e la qualità della vita è in continuo peggioramento. Bastano alcuni dati: riduzione PIL 2005/04 -0.3%; spesa per investimenti 2005/04 -7.2% ; evasione fiscale e contributiva 13,4%; credito alle imprese 2005/04 -0.8%; indebitamento delle famiglie 2005/02 +16.7%; Consumo delle famiglie +14,9%; 8% di lavoro nero e irregolare accertato; 990 aziende (85.201 dip.) in stato di crisi; aree dismesse per 24.610.000 m2 ; 1.550 siti inquinati; 436.000 residenti e 710.000 migranti sotto la soglia di povertà; inoltre qui si concentra 1/3 di tutto il traffico autostradale nazionale, nella valle padana ci sono stati oltre 120 superamenti della soglia di PM10 nel 2006 e vengono immesse all’anno in atmosfera 100 milioni di tonnellate di CO2.
In Lombardia si consuma molto di più di quanto si produce, perché in Lombardia la ricchezza nasce dalla messa sul mercato del patrimonio creato da generazioni, un patrimonio nato da un territorio che ora è in svendita e ancorato nelle istituzioni del Welfare che ora sono dismesse. La Lombardia quindi vive di un patrimonio straordinario di energie che sta consumando, e le “energie” di cui si nutre non sono energie rinnovabili. Questo è il terreno di riflessione che deve unificare i movimenti sociali che sono articolati e assai vivi sul territorio e che dovrebbe dare la misura del carattere alternativo della politica dell’Unione .
C’è poi una componente non produttiva della ricchezza sotto gli occhi di tutti che, dal punto di vista della redistribuzione, non produce nessun effetto. Non c’è una legge della Giunta Lombarda negli ultimi dodici anni che affronti le politiche redistributive. Cioè la Regione non ha mai fatto opera di redistribuzione: l’ha invece soppiantata con la carità e il clientelismo elettorale fatto coi soldi pubblici. Teniamo ancora presente che in Lombardia c’è il 20% dei depositi bancari in Italia, una ricchezza consistente che non va alla produzione ma alla rendita, all’uso del territorio, alle privatizzazioni, alle forme di privato sociale. Quindi c’è un volano autentico di ricchezza per il presente, ma che non si conserva, che si consuma e non viene trasferito alle nuove generazioni.
Infine, per vivere in Lombardia si pagano prezzi non dal punto di vista contabile, ma dal punto di vista qualitativo, molto dolorosi: ci si vive male e si muore prima. Un quinto di tutte le emissioni di gas serra vengono prodotte qui, eppure il progetto di legge presentato dalla Giunta sull’inquinamento non prevedeva alcunché per la loro riduzione: anzi il piano energetico in vigore infrange clamorosamente il protocollo di Kyoto. Dietro la richiesta di fare ancora più strade e infrastrutture ci sono troppi interessi perché si pensi invece a ridurre il traffico – che è la questione chiave – a chiudere alle auto i centri storici, a sviluppare il trasporto pubblico e a spostare la mobilità su ferrovia. Quanto costa fare ferrovie, trasporto pubblico? Costa certamente, ma dove è invece più conveniente mettere le risorse, magari prestate da “Roma ladrona”? Fatte le somme, Pedemontana più Brebemi più TEM più Malpensa – ossia 60 km di nuove strade e 4,5 milioni di metri quadrati di cemento attrezzato – valgono 18.897 milioni di euro cioè un quinto del risparmio della Lombardia. La domanda che si deve porre l’Unione, che sta all’opposizione, è: ha senso per i cittadini che si investa in questa direzione per alimentare un modello senza futuro o non è il momento di impegnarsi su un diverso concetto di mobilità che ne riduca l’impatto, aumenti l’efficienza, superi il sistema individuale dell’auto privata? E cosa dire invece della necessità di riqualificare la rete idrica in una fase di prevista siccità, dal momento che in essa si perde la metà dell’acqua immessa? Ma perché mai il Governo di Prodi al “tavolo di Milano” non introduce queste riflessioni e accredita invece il proliferare delle opere viarie come la priorità e la soluzione dei problemi di questa regione in crisi?
Se siamo di fronte all’impossibilità di reiterare un modello disspativo che non ricostruisce risorse e che manca di visione del futuro proprio quando una cultura della conservazione e della decrescita affronta gli scenari del cambio climatico e della fine dell’era dei fossili, allora non si capisce perché la sinistra non debba ricostruirsi a lato e in alternativa alla cultura che ha dominato gli anni di questa giunta di centrodestra.
In effetti, nella mancanza di un’analisi condivisa sulle direzioni e gli esiti di questa trasformazione, sono evidenti le responsabilità di una sinistra che, pur all’opposizione da quasi un ventennio, ha dimostrato una buona dose di inerzia e lentezza culturale. Una lentezza nell’adeguare le categorie della politica ad una realtà nuova che non ha risparmiato neanche il ceto politico nazionale, impedendogli di vedere la forza, l’impatto, la pervasività del modello politico lombardo al di là dei suoi tratti distintivi locali. Di vedere, tra l’altro, che c’è una vulgata nazionale, accreditata dalla stampa di tutte le tendenze politiche, di quello che succede in Lombardia assolutamente inadeguata, non tanto per i motivi cari al federalismo della devolution quanto per un motivo strutturale. Il primato lombardo non consiste infatti nell’efficienza del modello – come abbiamo ampiamente mostrato anche in un “libro bianco” prodotto dall’associazione Unaltralombardia – quanto dalla pregressa ricchezza delle risorse disponibili sul territorio che hanno costituito la riserva di ossigeno necessaria a nutrirlo. Una riserva ormai esaurita.
Di conseguenza, se è evidente l’impalcatura “integralista” e “antimoderna” di Formigoni, Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere, vero background ideologico e “alter ego” sociale della Giunta, meno comprensibile è il tentativo attuale dei Ds e della Margherita, fortunatamente ancora contrastato al proprio interno, di appropriarsi delle politiche formigoniane. Questo aspetto politico apre una riflessione nuova per l’orizzonte della sinistra in Lombardia e per lo stesse possibilità di successo delle organizzazioni del lavoro e dei movimenti nei territori: la formazione di un ceto politico uniforme allineato su fronti contrapposti.
Questo percorso di omologazione si sta manifestando in modo quasi dirompente sul versante istituzionale. L’ordine del giorno del 27 luglio 2006 votato dalla maggioranza di centrodestra, unitamente a Ds e Margherita, con la contrarietà delle altre forze di opposizione e l’astensione del coordinatore dell’Unione, sulle priorità degli interventi infrastrutturali viari della regione, rappresenta un “cattivo” esempio per evidenziare la gravità di un atto che ha determinato una rottura nell’opposizione, incomprensibile se non contestualizzato nel processo di profondo cambiamento politico e sociale della Lombardia. Giorgio Galli parla del passaggio dalla democrazia sostanziale, ad una democrazia delle procedure senza partecipazione, un’analisi che si coniuga bene con il tentativo in corso di rispondere alla crisi economico-sociale e politica, anche da parte di Ds e Margherita, in termini meramente quantitativi di consumo del territorio e dei beni comuni, costruendo nuove strade per le auto e le merci anziché dotarsi di ferrovie e mezzi pubblici per ridurre traffico e inquinamento e adeguarsi modernamente e non irresponsabilmente ai bisogni di mobilità, senza sentire alcun bisogno di confrontarsi e di coinvolgere i cittadini.
Crescita e cosidetto riformismo sembrano purtroppo essere diventati sinonimo della necessità di cambiamento e sentiero unico per dare le risposte “necessarie” alla crisi del modello sociale fordista che i cittadini lombardi domandano da oltre un quindicennio. Solo Formigoni sul fronte del centrodestra è riuscito però a trasformare queste domande in un consenso che in 15 anni non ha conosciuto flessioni consistenti, mentre le edizioni locali di Repubblica e del Corriere accreditano ogni azione bypartisan che converga sulle ricette che “il Governatore” propina con la sua formidabile macchina di propaganda. Ma basta questo perché, forse nella novità della prospettiva del Partito Democratico, sul fronte opposto Ds e Margherita si convincano a rompere ogni indugio anche a costo di mettere in crisi le alleanze all’interno dell’Unione per preparare, per questa via, la rimonta elettorale contro il blocco di centrodestra in Lombardia? Questa rincorsa di una modernità “liquida”, parafrasando il sociologo Zygmunt Bauman,[3] è un processo in corso, e non è tuttora chiaro quale sarà l’epilogo. Ciò su cui non vi è dubbio è il suo carattere moderato – in netta discontinuità con il programma elettorale dell’Unione in Lombardia – per perseguire una politica di interventi in campo istituzionale (con il federalismo competitivo), in campo infrastrutturale (con le più svariate opere stradali, definite ironicamente federalismo autostradale), nel campo dei beni pubblici (con l’accettazione della privatizzazione dell’acqua) e nel campo della sanità e della scuola, sempre più vicine alla depubblicizzazione.
Questo caso emblematico di eterogenesi dei fini suscita stupore, diventa deviante quando si misura la potenzialità devastante che potrebbe avere l’incontro definitivo tra la compiuta strategia antistatale e antidemocratica di Formigoni e un neo liberismo “nordista” di Margherita e Ds. Dipenderà anche da noi impedire tale avvicinamento e dare spazio e forza con contenuti e lotte ad una ricomposizione limpida, capace di futuro.
[1] Il Grattacielo Pirelli, simbolo universalmente riconosciuto della metropoli moderna, sorge dove un tempo c’era la fabbrica della “Brusada”, che la nascita dei primi pneumatici. E quella fabbrica aveva contribuito a sua volta ad attirare la Città fuori dal perimetro angusto dell’Ottocento.