Mario Agostinelli (capogruppo PRC Lombardia)
Fin dal primo annuncio di Berlusconi e Scajola ho pensato che il ritorno al nucleare fosse per questo governo, per la cultura di cui si alimenta, per la comunicazione con cui si relazione ai “sentimenti del popolo”, un tassello strategico. Questo aspetto si intreccia con la collocazione internazionale che il centrodestra si è riservata in occasione della discussione sul clima in Europa, quando ha capeggiato, contro le rinnovabili, il manipolo dei Paesi dell’Est destinatari quanto l’Italia di una obsoleta filiera nucleare.
Messaggio culturale e politica economica: un intreccio che va messo a fuoco per sviluppare adeguatamente una battaglia contro le centrali atomiche ed evitare di adagiarci incautamente solo sul riaggiornamento delle motivazioni vincenti di ventanni fa. Allora ci impadronimmo di una “narrazione” contro il miracolismo dell’atomo (l’Italia dei terremoti, la permanenza millenaria degli effetti nocivi, l’inevitabilità del rischio catastrofico, la sostituibilità dell’uranio con il metano). Oggi, per rimettere in gioco una scelta che invece ci schiaccerebbe solo sul presente e sulla insensata continuità del modello che ha condotto alla crisi più grave del dopoguerra, occorre una più stretta relazione con le nozioni di pericolo climatico, di sopravvivenza della specie, di inversione della crescita, di cambiamento del paradigma energetico e non solo delle fonti.
Innanzitutto, l’acuirsi ed il sovrapporsi di alcune emergenze (la catastrofe climatica, l’esaurimento delle fonti fossili, l’impennata dei prezzi del petrolio, le accresciute probabilità di black-out, la persistenza della crisi finanziaria e la progressiva riduzione del potere di acquisto dei salari e delle pensioni) condizionano pesantemente la quotidianità e facilitano la riammissione del nucleare nel novero dei rischi da correre per affrontarle, dato che si propone come la tecnologia già disponibile che sarebbe in grado nel breve periodo sia di riassicurare alla popolazione quella crescita che la realtà stessa sembra contraddire, sia di garantire agli attuali ceti dominanti continuità, comando autoritario e controllo dell’economia .
In effetti, il mito del prolungamento della crescita e della riserva a cui possono attingere i ricchi se si tengono alla larga i poveri, è parte dell’onda lunga di destra ed è una suggestione che, soprattutto al Nord, ha basi di consenso popolare elevate. Formigoni e Galan infatti hanno da subito lodato l’accordo Berlusconi-Sarkozy. Per di più, ci troviamo oggi di fronte a nuovi dilemmi: molte alternative sui grandi rischi non comportano la scelta tra alternative sicure e rischiose, ma tra diverse alternative rischiose: è il caso dei pericoli del cambiamento climatico combattuti con i pericoli incalcolabili delle centrali nucleari. Nella società del rischio le linee di conflitto sono linee culturali, che passano spesso dalla potenza dell’informazione controllata da pochi. Berlusconi oggi controlla il campo della paura e senza una adeguata reazione, quella che io chiamo una autonoma narrazione, noi saremmo persi. La paura del declino e della rinuncia ai consumi mette in secondo piano i rischi imponderabili del nucleare, che riguardano tempi remoti o basse probabilità di occorrenza. Questa volta bisogna spostare l’attenzione sulle alternative non pericolose, plausibili, realizzabili già oggi e che, soprattutto, prefigurano una organizzazione sociale desiderabile che favorisce un reinsediamento della sinistra.
Si tratta di una svolta propositiva opposta, culturalmente oltre che politicamente, al prevalere dell’azione offensiva di questo governo nei confronti della partecipazione, dell’autorganizzazione territoriale, dell’autonomia del mondo del lavoro e di quella democrazia di massa che diede tra i suoi frutti l’abbandono del nucleare attraverso una consultazione popolare.
Affianchiamo quindi al no al nucleare il sostegno convinto al risparmio e alla diffusione delle fonti rinnovabili: decentrate, a carattere territoriale, refrattarie ad un controllo monopolista, integrate nel ciclo naturale e alimentare, governabili molto più dal lato della domanda per decisione dal basso che non da quello dell’offerta per decisione dall’alto.
Bisogna poi considerare l’enorme inerzia con cui le lobbies economico-industriali che sostengono Berlusconi si opporrano al cambiamento. Nell’’87 ENI ed ENEL avevano interesse all’espansione del gas sul mercato nazionale e, con loro, interi settori industriali si sentivano rassicurati dal mantenimento di grandi centrali a combustibili fossili. Oggi ENI e ENEL trovano nel riavvio del nucleare sia le occasioni di scambio con i paesi mediterranei esportatori di petrolio e gas sia quelle di espansione nei Paesi dell’Est, mentre l’industria nazionale punta sull’alleanza con Areva francese per far pagare a Pantalone – come nel caso Alitalia-Air France – l’incapacità di rinnovarsi, di far ricerca e di esporsi al rischio.
Colpisce come gli attori industriali attratti dalla rinascita del nucleare, oltre ai cortigiani di Confindustria, Edison, A2A ed Enel, sotto lo sguardo benevolo di Colaninno padre e figlio, siano ancora i colonizzatori dei paesi in via di sviluppo o i grandi consumatori di energia a basso prezzo con gli aiuti di stato: Ansaldo, Camozzi, Techint, Pesenti, Moratti, Gnutti, i padroni siderurgici e cementieri, tutti concordi nel far pagare la crisi ai lavoratori.
Proprio tenendo in conto anche queste considerazioni e non solo quelle più scontate sul danno alla salute e all’ambiente, si può rispondere con successo ad una provocazione che ha tra le sue finalità quella di sottrarre alla sinistra il terreno del suo naturale insediamento sociale.