Mario Agostinelli (Carta, Maggio 2007)
Tutti gli scritti di Wolfgang Sachs sono così meditati e riflettono cultura e esperienza così profonde, da cogliere in anticipo eventi epocali e da indicare la direzione dei cambiamenti delle percezioni di massa che regolano i rapporti tra esistenza, aspirazione alla felicità, responsabilità, convivenza e le relazioni uomo-natura.
E’ come se l’autore volesse osservare la materialità delle scelte operate, che fanno dell’uomo un incessante produttore e consumatore, secondo una implicita scala di valori, che ne segnano l’inevitabile successo o declino ai fini dello sviluppo della civiltà e della possibilità di sopravvivenza.
Ma questa volta, in “Per un futuro equo” la dimensione sociale dell’ecologia assume un carattere così definitivo e irreversibile, da far consigliare le riflessioni contenute in un testo molto articolato e esaustivo anche ad un pubblico che politicamente sappia e voglia assumere la tematica ambientale nella sua più piena trasversalità e nella sua imprescindibilità ai fini della giustizia e dell’equità tra culture, popoli, classi sociali.
Conoscendo Wolfgang da lungo tempo, da una fortunata frequentazione che associava al suo ottimismo l’ostinazione analitica di Peter Kammerer e la lievità visionaria di Alexander Langer, nella recensione accentuerò un approccio un pò soggettivo, anche se penso che a lui non piacerebbe una patente da profeta, in cui le buone nuove sono sempre associate alle sventure. In effetti, nessuna profezia, quanto le sue anticipazioni, è più lontana dalla figura di Cassandra e più vicina, semmai, a quella di un Pintor, le cui analisi sulla necessità di scrollarsi di dosso i vizi della politica nazionale avevano la stessa lucidità e la stessa capacità di preveggente intuizione delle proposte ecosociali contenute in questo solidissimo e profondo saggio sulle risorse e sulla giustizia globale.
Un saggio che, a mio parere, corona un percorso fatto di continui strappi al senso comune. La critica di Sachs al concetto di sviluppo in un periodo in cui sembrava temerario accostare questa parola a quella di archeologia (“Archeologia dello sviluppo” 1993), aveva già aperto gli occhi per guardare alla globalizzazione con la lente della inevitabile compromissione della biosfera, anzichè secondo l’illusoria panacea di uno “sviluppo sostenibile”, con cui il rapporto ONU della Bruntland si sforzava di assicurare alla crescita dei PIL magnifiche sorti e progressive.
Poi, in una serie di volumi pubblicati in Italia dalle edizioni EMI, vengono ad emergere la sobrietà dei comportamenti, l’orientamento della produzione verso il valore d’uso, il dono e la multiculturalità come valori non tanto morali, quanto fisici e materiali, per avvalorare il richiamo al territorio e al rispetto dell’integrazione dei cicli naturali. Oggi quel percorso di riflessione innovativo e “profetico” si chiude con un imperativo più marcatamente politico (nel senso vero e interdisciplinare e non specialistico che il termine ha finito con l’assumere): “Per un futuro equo” ci dice che nell’epoca delle guerre per le risorse l’ecologia deve essere egualitaria e cosmopolita e che, quindi, il destino della biosfera e la giustizia sociale non possono che procedere insieme. Il valore dell’equità in una società cosmopolita può salvare la Terra, ormai provata a tal punto da rendere difficile la sopravvivenza della specie e il prolungamento della civiltà. Bella conclusione anche per me, che da sindacalista negli anni ’90 introducevo Wolfgang nei nostri corsi di formazione da incalliti industrialisti che cominciavano a scoprire, anche grazie a lui, che i diritti del lavoro e quelli della natura non erano tra loro antagonisti.
In sette capitoli si affrontano sia i punti di partenza di un’analisi allarmata (l’interdipendenza, le divisioni, la finitezza del mondo; la ripartizione e la geopolitica delle risorse; le pretese delle potenze consolidate e di quelle emergenti) che le proposte di soluzione delle crisi ( i modelli per una equa ripartizione; l’estensione del benessere al Sud; la decrescita del Nord; i patti di giustizia ed ecologia; il valore dell’Europa).
In un così ampio spettro di argomentazioni, che fanno di questo libro un testo da conservare anche dopo la lettura, a me sono sembrate di assoluta novità alcune intuizioni e talune basi di proposta innovative a cui l’autore fornisce anche il surplus di una originale potenza simbolico-evocativa. Penso alla lettura dell’11 Settembre 2001 come data di chiusura del ciclo di espansione della civilizzazione euroatlantica avviata con la scoperta dell’America del 1492, dal momento che per la prima volta appaiono anche al Nord conseguenze negative di processi secolari fino allora governati unilateralmente. Oppure alla constatazione che nella storia le società riuscite sono quelle in cui, almeno all’interno del perimetro di autogoverno, ha regnato la giustizia e che il loro crollo, a volte improvviso, è sempre stato conseguenza dell’infrazione di un raggiunto livello di stabilità sociale. E ancora, che le ragioni del colonialismo, anche se non confessate, hanno sempre avuto a che fare con il reperimento, fuori dei propri confini ormai esausti, delle risorse alimentari e biotiche ancora non sfruttate a livello locale e dei depositi nel tempo dell’attività vitale della biosfera (petrolio, gas, carbone, minerali).
Così Sachs prova a rileggere la storia dello sviluppo occidentale in una chiave di relazioni sbagliate con la natura e di riduzione delle potenzialità offerte dalla multiculturalità. Ha ragione, a partire da queste considerazioni, perché il XXI secolo presenta un capitalismo rinnovato che si ripromette di immettere nel ciclo produttivo e di portare al mercato non solo risorse inerti, ma la vita stessa e le sue componenti più irriducibili, mettendone in discussione, se non violandone permanentemente, l’intrinseca indipendenza dai fattori economici e rivendicandone la proprietà. Violando persino il terreno dell’autonomia individuale su cui si è fondata la cultura liberale e negando così l’apporto di culture che non si sono preventivamente sottomesse al mercato. Siamo quindi in una fase storica in cui il modo di produzione è giunto a minacciare le condizioni di riproduzione della specie e il tradizionale.
conflitto capitale-lavoro deve tenere conto che la natura non solo viene esaurita (Club di Roma), ma (novità ormai nella percezione di massa) viene sempre più irreversibilmente degradata a discapito della vita e della salute della specie, che anziché migliorare e evolversi verso maggiore stabilità e benessere, volge al peggioramento e al deperimento futuro.
E’ per questi motivi che la dimensione territoriale, strettamente connessa ai processi vitali e esistenziali e continuamente richiamata nel libro, diventa una scoperta per il rinnovamento della politica, perché ben si connette alla comprensione del contesto di sopraffazione e spreco cui vengono sottoposte natura e società in questa fase dello sviluppo delle forze produttive. A partire dal territorio, ce lo insegna l’autore, è infatti possibile ricostruire il valore sociale del lavoro, pur disperso e precarizzato, spazialmente e temporalmente eroso; promuovere la rivalutazione gratuita, “extracommerciale”, delle relazioni e delle culture; ridisegnare una produzione e un consumo sostenibili, che si possono meglio dimensionare e programmare in luoghi democraticamente dominabili. Il lavoro che s’insedia nel territorio viene di regola stabilizzato. “L’attraversamento”dei territori, come metafora di un bisogno insensato di velocità delle persone e di movimentazione delle merci, risulta spesso un inutile spreco. La chiusura dei cicli naturali in loco produce autentico risparmio, verificabile e continuamente migliorabile. Il governo comunale promuove partecipazione e stimola autonomia. Molta dell’elaborazione di Sachs può stare a premessa di quella dei Nuovi Municipi, ma, da oggi, può essere rivolta in modo ancor più cogente anche al sindacato e alla sinistra sociale e politica.
Ma. se sono così ampie le ragioni del cambiamento e così estese le alleanze per conseguirlo, cosa fare negli anni che rimangono, cioè nell’era in cui per la prima volta il tempo che importa non si conta in avanti, ma a ritroso?
I suggerimenti valgono sulla duplice scala globale-locale. Concepire l’ecologia come una forma di giustizia per cui l’uomo non vive nell’ambiente, ma con l’ambiente. Abbandonare l’idea di una sinergia tra la richiesta di giustizia e una politica di crescita economica, dato che l’ossessione dell’aumento è per i ricchi semplicemente e cinicamente una forma di autodifesa. Evitare consumi di energia senza rigenerazione e ridurre l’impronta ecologica, consentendo alla natura di ripristinare l’equilibrio di una biosfera ferita dall’arroganza della geopolitica.
Su alcuni punti controversi del dibattito in corso, le affermazioni collettive dei ricercatori del Wuppertal Institut di cui Sachs si fa portavoce attraverso i sette documentati capitoli, sono di grande interesse: contrazione dei consumi dei paesi ricchi e contemporanea convergenza dei paesi più arretrati in vista di una riduzione complessiva governata democraticamente e su scala mondiale; patti di giustizia ed ecologia fondati sulla sovranità alimentare, sulla tutela della biodiversità, sui diritti delle comunità locali, sul commercio equo contrapposto al libero mercato.
Infine una speranza tenace nell’Europa, in quanto la molla di una sua ricerca di identità si è manifestata non più solo nella costruzione di un mercato, ma “nell’opposizione all’attacco USA all’Iraq e alla negazione del diritto internazionale”. Originalissima questa attestazione verso un’Europa che “ha scoperto la vocazione al cosmopolitismo”, se si pensa al rigurgito xenofobo e all’integralismo cattolico che raccordano invece il dibattito della politica nostrana alla futura funzione nel mondo della Comunità dei 27.
“Perché – è la frase conclusiva di “Per un futuro equo – l’Europa non dovrebbe diventare per la società multietnica quello che Roma è stata per il Rinascimento?”
Un auspicio da sostenere anche dal basso e un cimento da sottoporre con decisione ad un governo di centrosinistra troppo continuista e senza orizzonti, dato che, per dirla con Pericle, “non si tratta di prevedere il futuro, ma di essere pronti per quando arriverà”.