Spazio, tempo ed informazione nella rottura del paradigma fordista
Privilegio dell’impresa sul lavoro e inconciliabilità tra tempo della produzione e tempo della riproduzione.
Queste note sono state sottoposte preventivamente ad alcuni studiosi. Le loro osservazioni sono risultate indispensabili alla stesura finale. Ringrazio in particolare Renato Valota per il suo contributo sul ricorso ai modelli scientifici per illustrare la realtà economico-sociale
1. Introduzione
2. Tornare alla politica
3. I limiti del modello fordista e la riorganizzazione capitalistica delle forze produttive.
4. Adeguare i modelli interpretativi alle dinamiche economico-sociali in corso
5. Tempo e spazio nel modello industriale
6. Le implicazioni del concetto di entropia
7. Tempo e spazio nel modello di impresa globale
8. Informazione e comunicazione nello sviluppo dell’ impresa globale
9 . Informatizzare la produzione per vincere la competizione
10. L’impresa come metafora del “vivente” e la logica dei modelli
11. Desensorializzazione della comunicazione e dinamica del consenso
11.1 Il sondaggio
11.2 La spersonalizzazione
11.3 Perdita del “punto di vista”
La televisione
Testo, immagini, ipertesto 41
11.6. Propaganda, media e democrazia
12. Le contraddizioni e le potenzialità delle reti
12.1 Di chi sono le reti ?
12.2 Forme nuove di comunicazione
12.3 Un grave ritardo
12.4 Soluzioni politiche, non tecniche
12.5 Informatica, attività umana, ecosistema
13. Conclusioni
Nel loro libro Ingrao e Rossanda[1] analizzano le caratteristiche inedite che il processo produttivo e le forme della politica stanno assumendo sotto la spinta della mondializzazione e della riorganizzazione del sistema d’impresa. Essi sottolineano la rottura in atto rispetto al modello fordista, le cui peculiarità, dall’organizzazione del lavoro fino agli assetti statuali, hanno fatto da riferimento per interpretare i conflitti della società industriale.
Finalmente, è stata messa sotto la lente una mutazione che è tuttora in corso ed è stata inspiegabilmente trascurata sotto il profilo qualitativo. E’ mia opinione che il cambio di paradigma ed il passaggio verso modelli non ancora compiutamente indagati, richiedono il proseguimento di una ricerca feconda, che gli autori sollecitano e che già ha trovato riscontro negli ottimi saggi di Revelli e Mortellaro1 , ispirati ad una riflessione assolutamente innovativa.
Si tratta di una ricerca che sta producendo risultati importanti, sia sul piano teorico che su quello propositivo, come si può rilevare, tra l’altro, dai documenti dell’ultimo Congresso della Fiom e della CGIL e da una pluralità di iniziative prodotte ed in corso2.
Tuttavia, tra le novità messe in luce e che introducono una salutare discontinuità rispetto al dibattito prevalente, una è forse colta al di sotto delle sue implicazioni, al punto che gli stessi autori non sembrano avere piena coscienza della discontinuità del ruolo svolto dalla comunicazione rispetto al passato, anche quando analizzano il rapporto tra l’individuo ed i nuovi linguaggi (compresi quelli video, software, multimediale) che dagli anni 80 invadono la scena mondiale. Un ruolo reso oggi straordinariamente penetrante e potente dall’impiego delle nuove tecnologie, non solo nell’innovazione del processo produttivo, ma anche nella trasformazione delle relazioni sociali, e, addirittura, nella ridefinizione della percezione dello spazio e del tempo. A questi aspetti le note che seguono rivolgono particolare attenzione.
Resta comunque decisiva e vitale l’intuizione di Ingrao e Rossanda che la sinistra debba riaggiornare profondamente la propria strumentazione e si debba spingere fino ad una sistemazione profonda – “culturale” – delle novità intervenute. Che ciò non accada a sufficienza è motivo di profonda preoccupazione. Infatti solo attraverso uno sforzo di notevole portata essa potrà coglierne le implicazioni sociali e politiche, puntando a governarle. Si profila quindi un percorso obbligato e faticoso, che ci risparmierebbe tuttavia la delusione che segue le semplificazioni consolatrici. Riconoscendo, come fanno gli autori citati , che parte rilevante della nostra sconfitta sia dovuta “all’incapacità di rispondere all’innovazione capitalistica dell’ultimo quarto di secolo” , potremmo ricostruire soggetti, programmi, alleanze e ridefinire la nostra identità senza correre il rischio di quell’incomprensibile separazione fra assetti economico produttivi, questione sociale e innovazione politico-istituzionale, che ha aperto varchi all’attacco della Costituzione senza favorire processi di riforma commisurati alla profondità dei cambiamenti in corso. E’ così potuto accadere che anche l’elaborazione della stessa Bicamerale sia proceduta senza una compiuta analisi di quanto stia mutando nei rapporti fra lavoro e impresa e di quanto questi rapporti influenzino lo sviluppo della democrazia nell’era della globalizzazione.
Procedendo lungo il percorso del lavoro citato1, intendo qui tentare un approfondimento su quanto e come siano mutate le percezioni di spazio e di tempo in questa fase dello sviluppo produttivo e su quali ne siano le conseguenze nella riorganizzazione della società. Si tratta di mutazioni, a mio parere, largamente prodotte dalla ricerca di un nuovo ordine nell’organizzazione dei fattori produttivi, che ha il suo motore nel sistema di impresa. Nuovo ordine che, da una parte, ha conseguito successi sul piano economico facendo leva sul trattamento dell’informazione e sull’utilizzo delle tecnologie della comunicazione mentre, dall’altra, ha provocato guasti irreparabili dando luogo ad una crescita del disordine nell’ambiente naturale e sociale.
Quelle che riguardano tempo e spazio sono novita’ rivoluzionarie, che ben mettono in risalto il cambiamento di paradigma in corso e aiutano a capire come sia stato possibile superare lo schema taylorista-fordista, che ha per oltre cinquanta anni condizionato il conflitto tra capitale e lavoro e nella cui cornice la sinistra ha pensato il proprio ruolo fino ai giorni nostri.
Da quelle novità derivano implicazioni molto profonde, che toccano insieme lavoro e esistenza e che vengono in parte anticipate nelle domande che Ingrao e Rossanda si rivolgono nel carteggio che occupa la parte centrale del loro libro.1
In esse vengono sia annunciati i sintomi di un generale disorientamento provocato dalla radicalità dei rivolgimenti in corso, come “ l’attacco a sfere profonde dell’umano che emerge dall’apologetica totalizzante dell’atto produttivo”, che espressi dubbi se “la rivoluzione informatica, che agisce sulla velocita’ di calcolo e l’accumulo di memoria, rivoluzioni altro che il tempo e ne sia ben altro che semplicemente una colossale accelerazione”. Fino ad arrivare alla constatazione che ormai “la disimmetria tra capitalista e forza lavoro sia totale, in quanto quest’ultima non concorre agli obiettivi, non sceglie la ricerca, non la conosce, se la trova materialmente rappresentata dal cambio di organizzazione del lavoro” 1
La cultura occidentale ha istituito relazioni profonde tra l’atto lavorativo e la pienezza dell’esperienza umana ( si pensi al Calvinismo!). Queste relazioni vengono disarticolate se la sfera lavorativa e quella esistenziale vengono ambientate in dimensioni spazio-temporali diverse. E cioé: quella lavorativa nello spazio-tempo virtuale delle interrelazioni globali, che funzionano in tempo reale e sono sostenute da tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione sconosciute all’esperienza delle generazioni del modello fordista, quella esistenziale nello spazio tempo biologioco.
Ormai si vive e si lavora – come illustrero’ piu’ avanti – nella sovrapposizione di dimensioni dello spazio e del tempo che appartengono a biosfere – quella tecnologica e quella naturale-diverse e secondo una organizzazione delle risorse che origina un paradigma in forte discontinuita’ con i principi di base dei contesti produttivi fin qui conosciuti.
Proprio l’insopprimibile tensione fra l’autonomia e l’irriducibilità dell’esperienza umana e le costrizioni imposte dagli assetti della produzione e del consumo ci aiuta a capire quale profonda scissione sia connaturata al moderno rapporto di produzione e su quali rilevanti categorie punti a riscattarsi la dignità umana. Riflettendo su questi fatti, è possibile ricostruire il privilegio della politica sull’economia, perseguendo il ripristino di una centralità del lavoro e dell’esistenza rispetto all’impresa, senza cadere fatalmente verso il localismo leghista o verso il rifiuto dello sviluppo, che si riaffaccia anche a sinistra.
3. I limiti del modello fordista e la riorganizzazione capitalistica delle forze produttive.
Alcune analogie tra la fase attuale e quella di inizio secolo fanno pensare che alla crisi del paradigma fordista nelle sue manifestazioni più evidenti segua ormai l’affermazione di un diverso insieme di principi fondati su coerenze interne ad un “metamodello”, che costituisce il contesto unificante cui fanno riferimento anche strategie competitive assai differenti.3
Anche se le imprese e le organizzazioni di mercato utilizzano una molteplicità di modelli produttivi e di relazioni, la coerenza del sistema sembra garantita dal proliferare del modello di impresa su scala globale e da un “paradigma di connessione”, che, utilizzando la lingua inglese come veicolo di comunicazione universale, stabilisce le regole di creazione e funzionamento delle maglie che connettono i nodi (ad esempio gli standards industriali, le regole delle transazioni, i modelli di comando e di partecipazione, i criteri di governo del mercato del lavoro, la rincorsa alla privatizzazione, la svalorizzazione del “posto di lavoro”, lo smantellamento del welfare) .
Nel 1911 F.W.Taylor 4 trovo’ un ambiente favorevole al successo delle sue teorizzazioni nell’America pacificata e lontana dal terreno di guerra, nella cultura industriale della produzione in serie, nell’ incontro con un prodotto (l’auto) evocativo di un modello di consumo e di vita adatto a crescere illimitatamente e in grado di unificare in potenza l’universo dei produttori e quello dei consumatori. Ma la molla decisiva fu individuata nella tecnologia del motore elettrico applicata agli utensili e trasferita alle “catene” e nella disciplina di lavoro conseguentemente adottata. Taylor era un ingegnere meccanico, che poteva contare, per estendere le proprie sperimentazioni, sul formidabile apparato industriale di un Paese in espansione e sull’accumulo di conoscenze e sulla capacità di ingegnerizzazione dei Politecnici di tutto il mondo. Per un’impresa di enorme ambizione sociale, ben al di sopra delle caratteristiche tecnico-scientifiche della sua prima ispirazione.
Ma in un contesto relativamente democratico, questo nuovo sistema di produzione e di organizzazione del lavoro – repressivo e vincolante – non poteva affermarsi senza un grado apprezzabile di consenso, una ipotesi condivisibile di sviluppo ed un compromesso sociale che garantisse un concorso anche del lavoro all’opera di razionalizzazione intrapresa.
L’imprenditore Henry Ford gettò un ponte su questo versante e intuì, fino a teorizzarle, le basi per un sistema duraturo che, pur ammettendo il conflitto e riconoscendo l’autonomia della classe operaia, permettesse di istituire un rapporto simbiotico tra i lavoratori, il modello di produzione e di consumo e l’impresa. Si creava così un circolo virtuoso tra crescita, profitti, redistribuzione dei redditi, occupazione e coesione sociale. Lo Stato Nazionale fornì quelle infrastrutture e risorse pubbliche (ferrovie, strade, investimenti nel sistema elettrico, sistema di incentivi all’industria e alla ricerca), che resero possibile una dilatazione territorialmente omogenea dello sviluppo, anche se in ambiti geografici circoscritti. Il concetto di sovranità poté a lungo procedere con quello di potenza industriale e di aggregazione conflittuale delle forze produttive.
Questo sistema di produzione ha improntato lo sviluppo, con una sorprendente coerenza, per oltre 60 anni, fino al manifestarsi di contraddizioni non più risolvibili all’interno della sua pura riproduzione. Quando le contraddizioni si sono palesate, in particolare a partire dal 1980 ed in un contesto profondamente modificato sul piano internazionale, le forze capitalistiche hanno reagito ed hanno prodotto una convergenza di diversi fattori propulsivi: rinnovato sviluppo del capitale, scambio di conoscenze su scala mondiale, messa in comune di risorse tecnico-scientifiche, forme di comunicazione potentissime, comuni orientamenti politico-istituzionali. La loro concomitanza e la sinergia prodotta dalla loro azione hanno dato vita ad un nuovo ed organico modello tecnico-produttivo, con effetti sociali conseguenti su scala mondiale. Si é trattato di un processo avviato all’incirca negli anni ‘70 e giunto a compimento negli anni ‘90.
Taijchi Ohno, alla Toyota, intravide nella peculiarità della cultura nazionale del Giappone (fortemente ispirata ad una ideologia tradizionalista e gerarchica) e nella nuova geografia della competizione internazionale l’opportunità di rivoluzionare il concatenamento dei flussi della produzione, ricorrendo ad una massiccia immissione di informazione dalla fase della progettazione fino a quella del mercato finale (inizialmente, attraverso il pittoresco ricorso a ceste di contrassegni colorati; più avanti, mediante l’impiego di software sofisticato).
Si poteva mantenere così l’intelligenza e la decisione dei processi in luoghi predefiniti, anche quando la forza lavoro, dispersa e riorganizzata secondo moduli diversi da quelli della manifattura taylorista, usciva dalle mura della fabbrica.
Le risorse e le soluzioni per una trasformazione dell’organizzazione del lavoro gli furono offerte dalla rivoluzione in corso nelle tecnologie elettroniche. Spostando l’attenzione verso la domanda, Ohno si rese conto che la produzione in serie evolveva verso la personalizzazione del prodotto. Il che imponeva schemi flessibili e continuamente riadattabili, che si potevano adottare con vantaggio anche sotto il profilo dei costi di produzione se si infrangevano le regole vigenti del mercato del lavoro e della prestazione contrattualmente vincolata. L’auto giapponese trovò così, contemporaneamente, terreno di espansione nei nuovi mercati mondiali, (dove la concorrenza era data dai bassi costi), e punti di sfondamento nel mercato occidentale (dove la concorrenza si basava sulla qualità e sulla capacità di adattamento alla domanda).
Ma tutto ciò non sarebbe bastato. E infatti il toyotismo rimane per tutti gli anni ‘70 un modello locale da studiare ed ammirare, ma di difficile trasferimento.
Per parlare di “nuovo modello”, occorre che si saldino i cambiamenti introdotti dal manager della Toyota nella riorganizzazione del settore manifatturiero e le sue intuizioni sulle dipendenze della fabbricazione dal mercato, con le innovazioni introdotte da alcuni tecnocrati e da una nuova figura di imprenditore. Un capitalista che ha alle spalle, un patrimonio di conoscenze e di relazioni finanziarie e commerciali, prima ancora che una consistente struttura produttiva, e che opera in settori che non trattano merci tradizionali, bensì informazione e comunicazione. Per intenderci, ci si riferisce a figure come Nicholas Negroponte- “cittadino del mondo” e direttore di Media Lab al MIT – o Bill Gates – l’ex studente che affronta il gigante IBM, per diventare il monopolista delle interfacce per i computers, nonché alcuni “tycoons”, che stanno riorganizzando il sistema dei media e delle telecomunicazioni a livello planetario.
Nel nuovo modello conoscenze e comunicazioni assumono valore strategico, prima ancora che per la qualità sociale dello sviluppo, per la rivitalizzazione di quel sistema d’impresa che va assumendo una dimensione globale.
In un simile contesto, il lancio da parte dell’amministrazione Clinton del progetto delle autostrade informatiche si è connotato di un enorme valore simbolico, in quanto ha proiettato una immagine materiale sperimentata nell’universo virtuale in costruzione ed ha aggiornato in una competizione a tutto campo il ruolo dello Stato, messo a disposizione dell’economia privata e, contemporaneamente, collocato in funzione equilibratrice per la ricaduta sul piano sociale degli effetti delle nuove tecnologie.
Così, quella che sembrava emergere come la novita’ giapponese circoscritta al sistema della manifattura, decolla come una inedita e complessa egemonia nippo-americana sui fattori produttivi e sociali, ancora non definitivamente risolta nei suoi equilibri.
4. Adeguare i modelli interpretativi alle dinamiche economico-sociali in corso
Ci troviamo così, a distanza di 80 anni dalla nascita del Taylorismo-fordismo, di nuovo di fronte ad una formidabile sinergia di saperi e di risorse che provengono dalle università, dai centri di ricerca e dai luoghi della produzione e che vengono promossi e sussunti anche a livello istituzionale per affermare un progetto, almeno nelle intenzioni, contemporaneamente razionalizzatore ed espansivo. Un progetto di riorganizzazione su scala mondiale della produzione di merci e servizi, ottenuto attraverso soprattutto l’elaborazione, il trasferimento di informazioni e la promozione e diffusione di conoscenze, che sembrerebbero dar vita, anche in questo caso, ad una crescita inarrestabile.
Come la nascita del modello fordista aveva trovato riscontro dapprima in una reazione della sinistra e del movimento operaio e, successivamente, in una progressiva teorizzazione del programma di queste forze, l’entrata in scena di un nuovo paradigma, più articolato ma non meno coerente e uniformatore, costringe a ridiscutere in profondità i modelli culturali-scientifico-interpretativi che l’accompagnano e che si stanno diffondendo con notevole consenso sociale.
A questi modelli, la sinistra nel suo insieme non oppone una coerente alternativa progettuale, dando altresì l’impressione di rinunciare all’autonomia di una propria proposta.
Sono modelli e valori che hanno prodotto la loro efficacia grazie ad un concorso interdisciplinare di saperi, ad un impiego di risorse e ad un utilizzo di tecnologie che sono stati mobilitati appositamente a sostegno della ristrutturazione del capitale produttivo e finanziario. Alla loro affermazione hanno dato un enorme contributo le Universita’, le istituzioni culturali ed i centri di ricerca di tutto il mondo.
Bisogna riconoscere che uno sforzo siffatto ha in parte raggiunto i due obiettivi principali che si era posto: continuare l’accumulazione in un mondo reso diverso dall’esplosione demografica e dal limite delle risorse naturali; accrescere i profitti anche quando “la produzione di merci non e’ piu’ capace di tenere insieme tutto il resto” 6 . Naturalmente, per assicurare il consenso sociale, occorreva ridefinire le basi su cui sviluppare la necessaria mobilitazione di risorse anche umane. Ma poichè la piena occupazione e la redistribuzione del reddito non sarebbero più state un traguardo credibile, diventava necessario, in concomitanza con l’introduzione del nuovo paradigma produttivo, rimuovere il baricentro della società dal lavoro e indebolire le organizzazioni sociali e politiche che individuavano nei diritti dei lavoratori le ragioni della loro identità.
Anche le istituzioni sono state sottoposte ad una doppia pressione: accrescere da una parte la funzione di governo rispetto a quella di rappresentanza, riconoscere dall’altra la centralità dell’impresa e annullare le funzioni dello stato sociale e il ruolo pubblico nell’economia. Queste due sono state le direzioni costanti delle richieste di modifiche costituzionali che le destre ed i poteri economici hanno organicamente praticato a livello internazionale.
Sul fronte sociale, la vera novità sta nel fatto che in questo progetto in gestazione un compromesso non sembra più’ necessario. La “classe” comunica assai di più attraverso il consumo che attraverso l’identità conseguita mediante il proprio lavoro. La “classe media”, definita dal consumo, rappresenta la massa più numerosa e di essa basta catturare il consenso, in una “democrazia degli spettatori” che prevede l’esclusione di una parte della società che non possiede alcun potere di riscatto.
Alla crescita non partecipano più tutti , seppure in modo differenziato: é davvero conclusa quell’idea di sviluppo, che Truman aveva indicato al mondo in ripresa dopo l’ultima guerra mondiale 5 . Si convive con precarizzazione e povertà, che danno luogo ad esplosioni improvvise e impreviste e che non escludono neppure le classi medie. Criminalità, rivolte circoscritte, tensioni etniche sono ormai parte delle previsioni di convivenza.
Poiché le esclusioni diventano strutturali ed il nesso economia-politica viene riconsiderato secondo una gerarchia che sacrifica democrazia e diritti, é opportuno che le forze di sinistra difendano il pluralismo sociale anche nelle nuove forme che si vanno delineando nelle istituzioni.
Mentre la logica economica che domina porta a sacrificare la mediazione all’efficacia e la rappresentatività alla governabilità, la risorsa del pluralismo sociale e della democrazia politica vanno tenute in campo.
E’ quindi decisivo battere ora le ipotesi di indebito rafforzamento degli esecutivi e di presidenzialismo a discapito di un profondo rinnovamento delle forme di rappresentanza sia diretta che delegata. Il problema é semmai quello di estendere l’ efficacia della rappresentanza ai livelli sovra-nazionali, dove si concentra il potere economico, finanziario e militare (Europa, Onu G7, FMI). E soprattutto quello di tenere fermo il diritto al lavoro come baricentro di ogni ridefinizione del patto sociale a fondamento di qualsiasi riforma istituzionale.
Essendo venuto meno il “contratto sociale“ 38, viene liberalizzata la struttura di connessione del sistema produttivo. Mentre il sistema delle ferrovie e delle grandi vie di comunicazione era stata tenuta nelle mani pubbliche per tutta la fase successiva alla Rivoluzione Industriale, quando cioè era cruciale il controllo della movimentazione delle merci, dal declino del fordismo in poi il “sistema nervoso” della comunicazione passa progressivamente nelle mani dell’impresa.
Si è consolidato un processo strisciante che ha indebolito perfino la richiesta che il controllo delle infrastrutture della informazione e della comunicazione (reti elettriche, elettroniche e digitali, radio, TV, banche dati e telecomunicazioni) sia pubblico o comunque sottoposto in maniera trasparente ai controlli della rappresentanza politica, democraticamente designata.
Dentro un processo assai complesso, ma dotato di una coerenza sfuggita alle forze antagoniste, quello stesso sistema che ha adottato come criterio organizzativo a livello globale quello dell’impresa, ha riadattato e improntato alle proprie esigenze di crescita i contesti spazio-temporali entro cui venivano organizzati i processi produttivi e l’erogazione dei servizi e ne ha forzato l’evoluzione, ricorrendo a tecnologie rivoluzionarie.
Spazio e tempo andavano rideterminati dalla necessita’ di misurarsi non più con una crescita illimitata, caratteristica intrinseca a tutta la fase della precedente industrializzazione (non solo capitalistica, come spiega Karol1), ma con un limite all’espansione. E con un contesto che spostava dalla produzione verso il consumo il fine del processo economico ed il profitto conseguente, trascurando definitivamente la riproduzione delle persone e della natura 37.
Questo processo – perseguito scientificamente – non ha avuto caratteri neutri, ma una dinamica economica, sociale e politica ben riconoscibile.
In essa le conoscenze sono diventate un fattore strategico, giocando un ruolo insostituibile nelle modalità della riorganizzazione.
Si è trattato di un coinvolgimento del mondo scientifico perfino superiore a quello della fase tayloristica, limitato per lo più alle scienze fisiche e matematiche applicate e, in particolare, all’ingegnerizzazione dei processi. Questa volta sono entrate in campo più da vicino un insieme di discipline di base, come la matematizzazione dei modelli, la fisica generale e, per la prima volta , la biologia, la genetica le scienze cognitive, riportate tutte a stretto contatto con l’universo culturale dell’impresa. Si tratta di una evoluzione molto significativa: un vero salto di qualità negli strumenti e nel metodo di trattare l’organizzazione del lavoro. In una tendenza all’estensione degli attributi del sistema vivente ai campi della produzione e della società, si è imposta un’idea dell’impresa come soggetto totalmente autonomo e autoreferente, che non dipende dal proprio ambiente ed é invece libero di organizzarsi ed esistere nello spazio e nel tempo, anzi con un proprio spazio ed un proprio tempo indipendenti dall’esperienza umana.
In questa concezione organicistica, l’impresa si sente legittimata a rompere il rapporto simbiotico con l’ambiente umano, a considerarsi una specie a sé stante, libera di manifestare il suo naturale istinto di sopravvivenza, contendendo agli altri suoi simili le risorse umane, naturali ed economiche della biosfera.
A seguito di questa rottura con il sistema di produzione precedente e di profonde innovazioni indotte nell’ambiente fisico e, di conseguenza, nell’universo socio-economico, i nuovi conflitti non hanno più’ solo natura ridistribuiva. Essi riguardano la distruzione delle risorse del pianeta, la forbice crescente tra parti del mondo, il carattere strutturale delle esclusioni, la precarizzazione del lavoro, il proliferare delle guerre, la diffusione di quel nuovo autoritarismo a cui fa riferimento Dahrendorff7. Sono conflitti contrastati in maniera episodica e da soggetti tra loro non in comunicazione; manca fino ad ora una linea unificante e la capacità di individuare ed esprimere alleanze durature o di stabilire gerarchie di priorità.
Per definire ed organizzare una risposta non episodica occorrerebbe produrre anche per lo sviluppo, per le sue prospettive durature e per la qualità sociale che ne deriva, una riflessione della stessa portata di quella che ha prodotto la svolta in corso in campo economico-produttivo.
A questo fine, a mio parere, è interessante svolgere una riflessione preliminare provando a “concettualizzare” e “storicizzare” i cambiamenti intervenuti nelle categorie di spazio e tempo in rapporto all’evoluzione dei modelli produttivi.
5. Tempo e spazio nel modello industriale
Partirò da un tentativo di concettualizzazione, che ha riflessi rilevanti per l’analisi socio-economica, e farò un uso volutamente radicale di modelli diffusi in campo scientifico, anche a costo di un approccio che, in prima battuta, potrebbe sembrare alquanto riduzionista. (Si veda, al riguardo, il bellissimo contributo di Cini 8 sul ricorso ai modelli interpretativi in campo socioeconomico e sui rischi connessi ad un loro uso acritico).
Ad ogni epoca, nella nostra cultura, sono corrisposte determinate concezioni filosofiche e scientifiche dello spazio e del tempo: esse hanno determinato in parte le tecnologie proprie di quell’epoca e queste hanno, a loro volta, influenzato la percezione spazio-temporale dell’esistenza.
Nel contesto della civiltà biologica dei cacciatori – raccoglitori – agricoltori – allevatori non c’é cesura tra dimensione lavorativa e dimensione esistenziale: lo spazio é finito ed é l’insieme dei luoghi connessi dai cammini, mentre il territorio é popolato da sistemi biologici e da forme soprannaturali. Il tempo coincide con quello sociale (scandito dal ciclo lunare, poi dalle festività rituali) e riflette o simbolizza quello biologico. Nel rapporto con la natura l’uomo si assimila più alle altre forme viventi che alla divinità; teme la natura perché solo gli dei possono dominarla. La conoscenza tecnologica é empirica, pragmatica, avulsa dalla filosofia naturale; l’utensile, la cui introduzione nel neolitico ha segnato una salto di civiltà, é comunque una appendice inerte e limitata dell’uomo.
La rivoluzione industriale, invece, risente decisamente di come la Fisica newtoniana, con gli strumenti della geometria analitica e dell’analisi infinitesimale, ha descritto il mondo fisico ed ha individuato le leggi che ne interpretano il comportamento e regolano l’utilizzo e la trasformazione delle risorse in esso presenti.
In un contesto come quello previsto dalla concezione newtoniana del mondo, l’attività umana porta ordine in una natura descritta come dispensatrice di risorse senza limite, mentre le leggi fisiche che stabiliscono relazioni quantitative tra le grandezze che si ritrovano in natura sono indipendenti dal tempo e dallo spazio in cui si applicano.
Leggi, quindi, che valgono sempre e dovunque, come se l’ambiente di riferimento rimanesse immutabile. Una concezione dove la scienza – lo “studio delle opere di Dio” – é destinata a scoprire tutte le “vere e immutabili” leggi impresse da Dio all’Universo e dove lo spazio e il tempo non sono costruzioni mentali, ma entità che esistono realmente, come i corpi materiali.
In effetti, dal Seicento in poi non é più importante, come lo era invece nelle tradizioni culturali precedenti nostre e degli altri popoli, cercare di individuare i principi essenziali del divenire: che senso ha più chiedersi ” l’essenza” dei fenomeni quando se ne conoscono le “leggi” e si sa che queste vi sono state impresse da Dio?
Tutto sta nel fare, pazientemente, gli esperimenti e le osservazioni scientifiche necessarie per giungere a comprendere con assoluta precisione i fenomeni naturali, descrivendo matematicamente le relazioni che intercorrono tra le grandezze misurate dagli strumenti. E quanto più grande sarà il numero dei fenomeni resi così “dominabili” dall’uomo, tanto maggiore sarà la possibilità dell’uomo di adattare alle proprie esigenze la realtà, con la stessa sicurezza con cui Dio l’ha creata.
In questo contesto culturale, così ottimista e sicuro di poter cogliere verità definitive, i tecnologi e gli scienziati sentono di poter progettare un futuro dove il progredire della rivoluzione industriale é benefico e dove l’attività umana porterà soltanto ordine.
Un futuro in cui l’affinamento delle tecnologie potrà rimediare agli inconvenienti pratici incontrati nell’applicazione delle teorie e dei modelli scientifici, consentendo di mettere a disposizione del progresso le risorse naturali necessarie, senza limite alcuno (la storia dell’energia fino agli anni ‘70 é la traduzione di questa presunzione).
In questo contesto filosofico – scientifico e ormai squisitamente economico produttivo, il tempo é lineare e gli orologi ne scandiscono il flusso con sequenze incrementali di periodici eventi meccanici, in rapporto tra di loro di causa ed effetto.
Lo spazio é quello euclideo: continuo e perfettamente descritto dalle curve, traiettorie, superfici e volumi espresse dal calcolo infinitesimale. Questo spazio geometrico può essere percorso da corpi costituiti da atomi pesanti a velocità sempre più elevate a seconda della forza applicata e dell’energia consumata, generando eventi comunque sottoposti alla percezione dei sensi (che, cioè, si vedono, si sentono, scaldano, mettono paura, etc.)
La meccanica e’ la scienza per eccellenza e si applica, in particolare, alla trasformazione della materia morta .
Le tecnologie conseguenti sono proiezioni degli arti e dell’apparato muscolare e servono per diventare piu’ veloci, piu’ forti e durare piu’ a lungo (all’infinito se le riserve energetiche naturali fossero infinite!). Cio’ che viene movimentato o trasformato e’ un insieme di atomi, pesanti e ricomponibili solo secondo combinazioni limitate e prevedibili, di cui si occupa in particolare la chimica. L’elettricità’, nel mondo della rivoluzione industriale e della fisica newtoniana, serve soprattutto a generare forze motrici e a influenzare atomi; assai meno a muovere elettroni a distanza o a trasferire elementi di informazione.
Non ci si deve meravigliare se nella produzione fordista, che é il punto di massima razionalizzazione della applicazione della concezione newtoniana alla produzione e alla società, non c’é più spazio per le fluttuazioni della percezione soggettiva del tempo: questo tempo deve lasciar posto a quello, fisico, degli orologi che articolano le azioni in successioni prestabilite, misurate secondo un ordine che stabilisce la distanza tra operazioni rigidamente concatenate.
Il tempo, in definitiva, e’ “accorciato”, articolato in successioni prestabilite, misurato secondo un ordine che stabilisce la distanza tra operazioni rigidamente concatenate. Lo spazio della biologia viene progressivamente divorato dall’irradiazione territoriale delle strutture e infrastrutture industriali (fabbriche, impianti, strade etc.) attorno e dentro cui si concentra l’attività produttiva. La guerra per la competizione e’ condotta per il possesso e per il controllo dello spazio.
La scansione temporale dell’attività dei sistemi biologici (lavoratori) deve sincronizzarsi con il tempo fisico scandito dalla meccanica degli orologi: il sistema biologico deve rinunciare (per un certo periodo di tempo fisico al giorno) ai “suoi tempi”, ignorare le stagioni, il giorno e la notte, gli stati d’animo o la sua età biologica per comportarsi come una macchina, un accessorio complementare dell’orologio meccanico, e deve agire in modo periodico e ripetitivo eseguendo operazioni rigidamente concatenate.
L’uomo – orologio deve commutare quotidianamente i suoi ritmi e le sue percezioni del tempo tra la sfera lavorativa (predominante) e quella (sempre più marginale) affettiva – esistenziale. L’uomo pensionato é un orologio scarico.
L’esperienza esistenziale del sistema biologico si snatura. Lo scardinamento della percezione del tempo biologico influisce sull’armonico sviluppo dell’individuo, sulle sue scelte – procreazione, affettività e valori – in modo più o meno accentuato a seconda del contesto culturale. Dove la contraddizione é più avvertita, si cerca di rendere più “umano” il lavoro (isole di produzione, contrattazione delle assegnazioni, rotazioni delle mansioni).
6. Le implicazioni del concetto di entropia
Questo modello che ha trovato la sua perfezione nell’organizzazione taylorista del lavoro, si poteva fondare solo su alcuni presupposti: l’inesauribilita’ dell’energia; la non deperibilita’ o la ricostruibilità delle risorse (che devono essere “morte” cioè inerti, perché non devono invecchiare e devono essere sempre e comunque reperibili perché vanno continuamente sostituite); il mantenimento nell’ambiente fisico di un livello di ordine compatibile con il mantenimento della vita.
Il modello, tuttavia, comincia ad entrare in crisi quando ci si rende conto – come previsto dal secondo principio della termodinamica – che ogni forma di energia é destinata a degradarsi, che le risorse del pianeta sono esauribili perché possono essere solo parzialmente ricostituite, che la tendenza al disordine é intrinseca ai processi naturali e che la interazione tra l’ attivita’ artificiale e la biosfera può diventare insostenibile.
Ad ingenerare i primi dubbi é la constatazione che in ogni trasformazione una parte dell’energia va inevitabilmente dispersa sotto forma di calore non riutilizzabile.
Così lo sviluppo della termodinamica introduce una nuova idea di tempo, come un flusso che ha termine quando, nell’Universo, le trasformazioni hanno cancellato ogni differenza in un disordine uniforme e generale. E si prende gradatamente coscienza dell’irreversibilità dei processi produttivi che comportano la distruzione della natura e della distinzione inconciliabile tra “inanimato e vitale” 9
La termodinamica è una scienza che cresce a stretto contatto con la produzione e la sua evoluzione subisce fortissime influenze sociali. Ma solo in una fase avanzata comincia a staccarsi dal modello newtoniano ed a volgere l’attenzione verso gli effetti che i processi studiati scaricano sull’ambiente.
L’indagine così si sposta, soprattutto dopo la Prima Guerra Mondiale, verso concetti nuovi, meno analitici, che considerano l’interazione sistemica con l’ambiente. Nel mondo scientifico, comincia ad essere messo sotto osservazione il contenuto di informazione e di ordine di un processo a qualsiasi stadio della sua evoluzione. E si capisce che per prolungare il tempo di vita di qualsiasi organismo vivente, o di quanto si assimila per analogia ad esso, bisogna assicurargli un grado di ordine elevato.
Quello della conservazione può diventare, da qui in poi, il primo obiettivo per una società che traguardi alle future generazioni. Ma é lasciato a sparute minoranze e non diventa una preoccupazione rilevante per gli interessi propensi a massimizzare, specie sotto il profilo economico, solo i processi correnti. Se si debba privilegiare più la conservazione che il rendimento istantaneo, più la qualità sociale che la produttività industriale, non sono in effetti problema per la cui soluzione debbano pesare considerazioni scientifiche. La scelta dipende dalla conformità delle opzioni all’interesse capitalistico, e per converso, dall’efficacia del controllo sociale e dalla autonomia delle rappresentanze degli interessi antagonisti.
Anche se vince una tendenza continuista, sospinta dagli interessi economici, comincia ad incrinarsi l’iniziale illusione che la scienza avrebbe guidato il progresso lungo un armonico cammino e nel mezzo di una crescita impetuosa si fa strada il disincanto. La scienza non é più neutrale e lo scienziato deve scegliere tra l’esercizio scomodo della critica intellettuale nei confronti del “sistema” e l’asservimento compiacente, meglio gratificato, al potere economico e politico.
La fine della “grande illusione” si manifesterà chiaramente nella Seconda Guerra Mondiale, quando la comunità internazionale dei fisici, che nella Prima aveva rispettato l’impegno a non collaborare allo sviluppo di armi offensive, si lacera dividendosi tra chi, come Bohr, cerca di affermare ancora gli antichi valori e chi, come Oppenheimer con qualche riserva e Von Weizsacker più decisamente , si schiera ponendo il proprio sapere al servizio della guerra innescata dall’ingordigia del potere politico-economico della Germania nazista.
Già prima, in effetti, sono molti gli scienziati 10,11 che anticipano la crisi del modello di produzione, ma, come detto, ragioni squisitamente politico-sociali tengono le loro conclusioni ai margini del dibattito scientifico ufficiale. Esse sarebbero state certamente eversive, se avessero avuto considerazione e piena cittadinanza nel mondo accademico.
Ad esempio, la termodinamica dei processi irreversibili era giunta a conclusioni inquietanti da tempo. Tuttavia, il mondo ufficiale ha volutamente trascurato l’implicazione associata al concetto di entropia per cui, se si crea ordine in un punto, si crea un disordine più elevato nell’ambiente circostante. Così come non ha voluto trarre conseguenze dall’altra implicazione per cui, se la velocita’ di un processo cresce a dismisura, anche il suo tempo di vita si esaurisce più rapidamente. Trasferendo questi concetti al sistema economico-sociale, si sarebbe potuto davvero concludere che quando si ordina un processo produttivo con altissimo tasso di produttività, a fronte dei benefici creati nel punto privilegiato (ad esempio, diremmo noi, il sistema di impresa), non ne può che derivare un grande disordine nell’ambiente circostante (sociale, naturale, istituzionale) ed una aspettativa di sopravvivenza ridotta del sistema nel suo complesso.12
Ma anziché dalle organizzazioni sociali e dalle rappresentanze politiche del lavoro, che ne avrebbero potuto mettere in luce la crisi dal loro punto di vista, il sistema industriale è stato rimesso in discussione proprio dal capitalismo, che ha ritenuto necessario riorganizzarsi e riadattare il processo produttivo di fronte alle lacune e all’insufficienza del modello newtoniano nell’interpretare il rapporto fra produzione, natura e società e la sua evoluzione futura. A partire dagli anni 80 il capitale ha provveduto così a tener conto nel suo modello espansivo su scala planetaria dei vincoli fissati dalla “regola entropica”. L’ha fatto per se stesso senza considerare equivalenti benefici per l’ambiente sociale naturale, rimuovendo però ogni remora suggerita da una qualche lungimiranza e contemplando degrado ed esclusione, spreco e ingiustizia fra gli effetti intrinseci del paradigma produttivo che avrebbe sostituito a proprio vantaggio quello taylorista-fordista.
7. Tempo e spazio nel modello di impresa globale
Per la verità, la svolta ed il passaggio decisivo ad una nuova dimensione dello spazio e del tempo nella percezione di massa e nei comportamenti conseguenti, coincide con le applicazioni della tecnologia nucleare. Prima il raccapriccio di fronte alla potenza distruttiva della bomba atomica, poi la constatazione della portata dell’incidente di Chernobyl, hanno reso tangibile la dilatazione temporale e l’ordine di grandezza planetaria degli effetti di tecniche che non sono mai controllabili fino al punto di eliminare totalmente il rischio dell’estinzione di una civiltà, se non dell’intera specie.
Ma già da tempo stava completandosi nell’immaginario collettivo una riunificazione del mondo ad opera di trasformazioni che provenivano dal cuore del sistema produttivo, dai sistemi organizzativi, dall’espandersi delle tecnologie elettroniche di trattamento e trasferimento dell’informazione e che riguardavano indifferentemente ormai tutti i continenti dove si insediava qualsiasi iniziativa finalizzata alla crescita e allo sviluppo economico.
In particolare, come già anticipato, a partire dalla fine degli anni ‘70 si è progressivamente realizzato quel concorso di tutte le discipline scientifiche e sociali che ha reso possibile affrontare con successo il quadro nuovo del limite alla crescita. Uno sforzo che ha mutuato dai modelli fisico-matematici, biologici, genetici la strumentazione per indagare i comportamenti socio economico-produttivi nel nuovo contesto. Il ricorso a descrizioni probabilistiche ed ai concetti di “equilibrio dinamico”, o di comportamenti “massimi accettabili” é diventato sempre più frequente nella progettazione di flussi produttivi che reagiscono in tempo reale ai mutamenti ambientali e si alimentano di informazione.
Nel nuovo contesto economico produttivo, dopo la fisica e la chimica, anche la matematica può ora dispiegare al servizio dell’impresa le nuove potenzialità liberate nel secolo scorso dal superamento del “tabù” dell’intangibilità della geometria euclidea. Dalla fine dell’ottocento in poi, la matematica rivoluziona il suo concetto di spazio. Con Riemann esso può assumere un numero qualunque di dimensioni e non é più necessariamente infinito, perché può essere “curvo” e quindi limitato.
Poi il concetto si amplia e “spazio” diviene ogni ambiente nel quale venga introdotta una “struttura”, cioè un certo complesso di relazioni fra gli elementi (non più necessariamente geometrici) dell’ambiente, espresse da opportuni postulati.
Questa varietà multiforme di spazi fertilizza le potenzialità dei nascenti sistemi informatici che possono ora prestarsi a “pseudo-geometrizzare” e razionalizzare qualunque genere di processo, strutturando nella dimensione della virtualità più pura e astratta la moltitudini di fattori che intervengono nell’organizzazione dei processi produttivi e decisionali.
In tal modo, la sinergia tra matematica e informatica dota l’impresa di un suo sistema nervoso centrale che “ragiona” in spazi che sfuggono alla possibilità di una rappresentazione mentale e che ne accentuano l’autonomia e l’alterità rispetto alla dimensione umana. Nutrendo i computers con queste logiche ermetiche, l’impresa può esercitarsi nei giochi di “simulazione” e prendere fideisticamente (perché la logica é accessibile solo agli “iniziati”) decisioni strategiche che hanno dirette ricadute sulla realtà sociale. E, con lo sviluppo dei sistemi di comunicazione, diviene possibile gestire eventi e processi comunque distribuiti nello spazio reale, ma che non sono separati da intervalli di tempo perché, anche se distinti, sono allineati dalla “contemporaneità” resa accessibile dal fatto che i sistemi di comunicazione trasferiscono ovunque, con la velocità del pensiero, i “bits” che li descrivono e ne segnalano il grado di compimento.
In definitiva, si è andato configurando un paradigma produttivo con uno spazio ed un tempo proprio, in discontinuità con quello dell’esperienza precedente. Un paradigma che permette di simulare uno spazio ed un tempo della produzione (a rete e in contemporanea) al cui interno vengono massimizzati gli obbiettivi del sistema economico-finanziario ed é minimizzata “l’entropia” locale, poiché sono volutamente trascurati gli effetti di disordine indotti sulla società e l’ambiente dove si scarica il massimo di “entropia” esterna.
Si e’ creato cosi’ un luogo “mentale” (virtuale) della produzione – il cuore del sistema d’impresa – accanto a quello fisico cui siamo abituati. Luogo che e’ fatto di punti discontinui ma interconnessi, di comunicazioni e reazioni simultanee, di tempi non necessariamente sequenziali, di elevato ordine. Il suo funzionamento comporta relativamente poca energia, tutta concentrata nello scambio di informazioni e nella simulazione. La ricchezza, l’accumulazione e, in definitiva, il potere stanno qui.
Invece la produzione materiale vera e propria avviene in un luogo “fisico”, dove si verificano grandi dispendi e sprechi ingenti, riversati sull’ambiente sociale e naturale.
Ed è lì, fuori dal fortino “virtuale” dove si assumono le decisioni strategiche, che si combatte una autentica guerra per il possesso e l’esproprio del tempo, diffusa su tutto il territorio e che ha soppiantato quella tradizionale per il possesso dello spazio. E’ il tempo delle persone impiegate nella produzione ad essere colonizzato, non più o soprattutto lo spazio geografico dove gli impianti vengono insediati, dato che la loro mobilità sul pianeta dipende ormai da quanto del loro tempo gli abitanti dei Paesi che li accolgono sono disposti a cedere per il loro funzionamento (Melfi o le fabbriche di auto argentine vengono costruite solo dopo che sono stati accettati turni continui di lavoro). Basta ricordare che le aree ex-industriali oggi sono alienate, sottratte alla produzione e messe a disposizione del capitale finanziario per costituire la rendita che si alimenta nel tempo attraverso gli interessi bancari .
Anche il lavoro manifesta un carattere duale, sia nella distribuzione geografica che nella stratificazione dentro l’impresa.
A livello mondiale la produzione delle merci, pur sofisticate, si estende nelle regioni a basso costo (Indonesia, Paesi dell’Est, etc), mentre la progettazione, la direzione dei processi ed il consumo si concentrano nei Paesi della “Triade”.
Nell’impresa altresì avviene un’altra forma di splitting: il lavoro è stabile, si allarga e diventa strategico solo nello spazio che abbiamo definito virtuale, mentre si riduce e diventa sempre più precario nello spazio che abbiamo definito fisico. Il saldo è comunque negativo e la disoccupazione si fa strutturale. Eppure la connessione degli universi virtuale e fisico è assai critica. Laddove si definiscono le regole commerciali o si stabiliscono i valori dei cambi o le condizioni degli interessi bancari, insorgono conflitti di difficile composizione. Mentre nei nodi dove si trasformano “bit in atomi” 13 le resistenze, gli antagonismi, i poteri contrattuali spuntano fortissimi, anche se per ora mantengo un carattere prevalentemente corporativo. Ad esempio, sul primo versante, gli scontri per il Nafta o le tensioni per lo SME o la rinegoziazione del debito del Terzo Mondo sono autentiche guerre moderne. E nell’altro caso, lo sciopero delle “bisarche” di Melfi, o le paralisi colossali provocate con facilità dagli autotrasportatori e dai piloti, sono la versione più attuale del “sasso nell’ingranaggio”. Ma sarà ancor più interessante verificare la prospettiva conflittuale che si delinea per i lavoratori autonomi, gli artigiani, i lavoratori dell’indotto: quell’atomizzazione sul territorio che prende gradualmente coscienza della propria autonomia, della propria indispensabilità e, contemporaneamente, della sua alienazione.
Va notato che questo doppio schema – virtuale/reale – domina ormai ogni realtà competitiva, fino ad arrivare, a seconda dei casi, alla sublimazione e alla giustificazione della guerra oppure alla voluta ostentazione ed all’esasperazione della sua ferocia. La guerra del Golfo e’ stata rapidissima ed è stata divulgata attraverso le immagini, governata dalle informazioni, simulata dagli schermi: nessuno però ha potuto vederne i morti. L’ordine nello spazio virtuale e’ stato prestamente raggiunto; in quello fisico, invece, le ferite sono state enormi: bruciati i pozzi petroliferi, cancellate le vestigia di una antica civiltà, messo alla fame un intero popolo, oscurato un territorio. Una popolazione ed una cultura tra il Tigri e l’Eufrate sono stati privati di identità, passioni, vita, mentre i “buoni”, come in un film western, sono stati celebrati e premiati.
Se invece i contendenti non hanno potere, sono entrambi “dannati del mondo”, la loro guerra appare crudelissima, truculenta, sanguinaria, priva di buoni o cattivi da riconoscere a priori. Svanisce così il virtuale, emerge la fisicità della ferocia, che viene data in pasto ad un pubblico sgomento, ma, tutto sommato, distante, come nel caso delle guerre africane in corso e, anche se in misura minore, di tutto il recente conflitto jugoslavo.
Tornando alle concezioni spazio temporali e alla loro evoluzione, si può concludere che si é andato configurando un paradigma produttivo che dispone, in aggiunta allo spazio – tempo precedente, di uno spazio-tempo virtuale proprio. Lo spazio è stato reso discontinuo ed il tempo ha preso il segno della simultaneità.
In essi l’esperienza esistenziale del lavoratore si svolge commutando le sue percezioni tra tre sfere spazio-temporali (biologica, meccanica, telematica) diverse: la schizofrenia, da duplice con il taylorismo, si fa triplice con il nuovo sistema.
La dimensione esistenziale dello spazio- tempo duale della produzione é in acuto contrasto con quello (finalizzata alla continuità della specie, non del solo individuo) del sistema biologico.
Nella catena di montaggio il sistema nervoso centrale non era coinvolto completamente; nella nuova organizzazione del lavoro lo é di più, e lo é anche la sua sfera emozionale-affettiva (interiorizzazione della “missione” aziendale; “pensare come l’azienda”, continui cambiamenti di identità dovuti alla flessibilità interna ed esterna).
Così non è solo il tempo di lavoro ad essere modificato. Ormai il tempo scelto è violato irrimediabilmente dal tempo della produzione e dall’invasione del consumo. Per recuperare le cadenze e le esperienze sensoriali perse, l’uomo e la donna moderna vivono sempre di più in un tempo artificiale, dove gli eventi a cui non si è potuto partecipare vengono riprodotti: il suono registrato, le immagini in videocassetta, le sensazioni della tridimensionalità create col computer si sovrappongono così all’esperienza diretta.
Nello schema considerato, per trarre il massimo profitto, c’e’ bisogno di far interagire impresa e ambiente al fine di ottenere il massimo ordine ed il massimo beneficio per l’impresa, prelevando risorse (non solo materiali, ma anche sociali) dall’ambiente. La missione dell’impresa nella competizione è segnata: costruire un proprio ordine, il più elevato possibile, a discapito di quello esterno. Ecco perche’ un ordine ambientale e sociale (bassa entropia per tutta la societa’) e’ ritenuto dispendioso ed in contrasto con le necessità della competizione e perché nel paradigma produttivo postfordista l’impresa separa i suoi destini dalla societa’ assai piu’ che nel fordismo.
C’e’, in definitiva, un tale squilibrio tra tempo della produzione e tempo della riproduzione, da farne il tema centrale di questa civiltà. Se si aggiunge il fatto che lo Stato nazione privilegia l’impresa e l’uno e l’altra assumono sostanzialmente solo la dimensione economica dello stato sociale, si capisce come stia crollando uno dei principi delle moderne costituzioni europee: il nesso tra cittadinanza e lavoro, mediato dal welfare.
8. Informazione e comunicazione nello sviluppo dell’ impresa globale
Al nuovo contesto spazio-temporale concorre in maniera determinante l’evoluzione della comunicazione.
Per mantenere le condizioni di crescita ordinata al proprio interno, l’informazione diventa strategica per l’impresa. E qui viene in soccorso una tecnologia rivoluzionaria.
Occorrono reazioni in tempo reale e decisioni tempestive (cioè tecnologie elettroniche fondate sul principio di retroazione e procedure velocissime di trattamento dei dati), che consentano la sopravvivenza in un sistema competitivo molto aggressivo e complesso. L’informazione e la comunicazione sono fattori vitali. Ecco perché le nuove tecnologie non richiamano più analogie muscolari, ma sono di natura neurale, proiezioni del cervello, non degli arti. Le nuove macchine non sono potenti appendici delle braccia che le guidano ed anche quando, come nel caso del “mouse” del calcolatore, si ricorre al movimento della mano, l’azione sullo schermo procede come l’esplorazione del virtuale psicologico.
Viene trattato scientificamente non soltanto l’organizzazione del flusso (Taylor)3, ma l’intero comportamento del sistema di produzione (di impresa), che punta a sopravvivere col massimo del risultato in un ambiente che ha limiti riconosciuti e non è più trattato come se fosse infinito. L’impresa viene considerata un organismo. Il tempo non e’ piu’ criterio di misura, ma di organizzazione. Così “ordinatore”, che occorre saturarlo in ogni suo intervallo, perché le relazioni fra le parti di questo organismo si compiono non secondo sequenze, ma nella contemporaneità.
La razionalizzazione del tempo di lavoro, che era individuale nel taylorismo, diventa sociale ora, dato che la fabbrica si razionalizza “da se’ ” comunicando e trasferendo informazioni tra le sue componenti. Si applica una attenzione scientifica non tanto al “microcosmo fisiologico umano”, quanto al “macrocosmo organizzativo aziendale” 1. E’ chiaro che per far ciò non bastano le tecnologie informatiche, ma diventa necessario privare la forza lavoro della sua autonomia e comprenderla stabilmente nel funzionamento dell’“organismo”. Organismo che ha una sua mente ed una sua missione, entro cui il lavoro non e’ mai cooptato come soggetto indipendente. Di conseguenza, il patto sociale non passa piu’ dal lavoro, o, se si vuole, non e’ piu’ previsto come fondamento indispensabile dello sviluppo, pegno da pagare all’antagonista: la coesione sociale è un costo che il nuovo modello non si accolla più.
C’é da considerare un ulteriore aspetto collegato alla composizione prevalentemente finanziaria del capitale e alla nuova dimensione spazio – temporale consentita dalle tecnologie della comunicazione.
La grande impresa è quotata in borsa e il suo capitale è costituito in grande parte dall’investimento azionario, il cui valore dipende dalla quotazione delle azioni. Sotto questo aspetto, quindi, la sopravvivenza della grande impresa dipende non solo dal successo dei suoi prodotti, ma anche dalla preferenza che il mercato azionario accorda alle sue azioni.
Si tratta di una preferenza sottoposta a criteri extra industriali ed esposta alla speculazione. In passato la strategia speculativa non poteva affermarsi più di tanto, anche perché i mezzi di comunicazione non consentivano quella conoscenza tempestiva e globale delle tendenze delle borse che é necessaria per ridurre il rischio e massimizzare il profitto dell’investimento finanziario a breve termine.
Oggi che la quota prevalente della ricchezza mondiale non é più fisicamente localizzata in poche mani, ma é costituita dai risparmi delle centinaia di milioni di soggetti anonimi che costituiscono il ceto medio-alto internazionale, una massa enorme di ricchezza é di fatto posseduta da imprese transnazionali e gestita “per conto terzi” da una moltitudine di operatori finanziari che se ne contendono l’affidamento promettendo utili (anche a breve) sempre più elevati.
Dal punto di vista economico, questa concorrenza serrata tra operatori finanziari accelera il metabolismo del sistema finanziario, indirizzandolo verso operazioni di respiro sempre più corto.
La strategia speculativa può ora affermarsi perché l’operatore finanziario dispone di sistemi di comunicazione che gli consentono la conoscenza tempestiva e globale dell’andamento delle borse e di spostare istantaneamente l’investimento da un punto all’altro del globo, da un settore produttivo a un altro o al settore dei titoli o delle valute. L’operatore é assistito da software e sistemi informatici che sanno individuare il tipo di operazione che, in quel momento, risulta più vantaggioso ed attuarla, anche automaticamente, in tempo reale.
In questo contesto, l’impresa non conta più esclusivamente sul sostegno di un azionariato “affezionato”, disposto a sostenerla nei periodi di magra in attesa che i progetti di medio e lungo periodo diano i loro frutti, ma le quote azionarie sono affidate a società di investimento che non sono “affezionate” nè a determinati settori produttivi, né al paese della “casa madre” . Le borse si moltiplicano e si strutturano in una rete internazionale strettamente integrata in tempo reale.
La contemporaneità, sostenuta dalle tecnologie della comunicazione, non é solo la nuova categoria temporale della produzione, ma anche quella dell’espansione finanziaria.
9 . Informatizzare la produzione per vincere la competizione
Il paradosso della crescita attuale sta nel fatto che, quando ormai si è giunti a globalizzare la produzione e non solo il mercato, non si è tuttavia in grado di far coincidere lo spazio della produzione potenziale con quello del consumo reale. L’esclusione strutturale e la concentrazione dei profitti impedisce la ricostruzione di un “circolo virtuoso” come quello che aveva prodotto l’affermazione del modello fordista.
Eppure, quando ormai era diventato senso comune il concetto di limite allo sviluppo, si era andati in cerca di un “prodotto” – l’informazione – che si sarebbe dovuto porre a perpetuazione del mito dell’espansione infinita. La sua natura “immateriale” sembrerebbe fatta apposta per far coincidere l’area dei produttori con quella dei consumatori, rovesciando su di loro versioni di prodotti sempre più sofisticati e “indispensabili” (l’ultimo software inutile, l’ultimo chip superveloce, la multimedialità più intrigante, le banche dati ridondanti, le notizie in rete, il fascino di Internet, i giochi, le transazioni telematiche). Si è ipotizzato così un mercato a cui sono state dedicate le uniche politiche neokeynesiane ancora delineate , come quelle contenute nel piano tracciato da Delhors nel suo “libro bianco” e per il cui controllo si è scatenata la voracità dei nuovi monopolisti della scena mondiale: nel recente passato l’IBM, ora la Microsoft di Bill Gates, in futuro forse le “corporations” multimediali. Per la verità, all’informazione, alla sua elaborazione e al suo trasporto è oggi attribuito un duplice compito: quello ormai ritenuto irrealizzabile di perpetuare un orizzonte fordista, definitivamente precluso nell’area delle merci, e quello, forse più facilmente perseguibile nel medio periodo, di contribuire a razionalizzare e rendere competitivo il processo di produzione di merci e servizi sostenendo tecnologicamente e organizzativamente il nuovo paradigma produttivo che ha soppiantato quello fordista.
Qui di seguito rivolgo l’attenzione a questo ultimo aspetto, determinante nella svolta in atto.
Nella produzione snella l’elemento ordinatore é l’informazione, che può essere trasmessa alla velocità della luce (quindi “simultaneamente” al fluire del processo) ed essere elaborata da programmi che, in prospettiva, tenderanno ad autoapprendere, se non a comunicare verbalmente con l’operatore. Al trattamento dell’informazione, alle relazioni che la utilizzano ed al suo trasferimento, è affidato il compito del controllo in tempo reale, che elimina di fatto la necessità di istituire un controllo esterno permanente e di seguire disposizioni prescrittive stabilite una volta per tutte. Ormai, si progetta l’autoregolazione e si prevede la capacità di un riordino ottimale ogni qualvolta cambiano gli obbiettivi fissati o mutano le condizioni di operatività. Si governa dal fondo ( bottom-up), a patto che ogni perturbazione ed ogni eventuale conflitto possano essere controllati o fatti rientrare. L’autoregolazione riguarda tutti i fattori della produzione: in particolare il lavoro, che deve innanzitutto rinunciare alla sua indipendenza. Anch’esso è regolato dai programmi, anch’esso é fonte di informazioni, anch’esso va governato dal fondo. (E’ per principio che la FIAT ha imposto nel 1994 quel salario legato alla “soddisfazione dei clienti” contro cui si é mobilitato soltanto il sindacato CGIL dei metalmeccanici !)
Una volta eliminati punti di vista antagonisti e fissata la propria “missione”, tutta l’impresa tenderebbe a perseguirla sempre meglio nel tempo, sfruttando al massimo le conoscenze, affinando le esperienze compiute e utilizzando un sistema nervoso (che fa perno sulla rete informatica) che connette tutte le sue parti e la collega al resto della società.
Bisogna riconoscere che l’informatizzazione mette a disposizione formidabili elementi di controllo sociale, non solo di controllo tecnico-logistico. Così, anche la società è assunta a risorsa organizzativa, non solo i lavoratori dipendenti dall’impresa in senso stretto. Come scrive Veltz 14 “l’economia più avanzata funziona sempre di più mediante l’extraeconomico” e le risorse territoriali vengono prese in considerazione dal sistema delle imprese quanto e più di quelle strettamente professionali.
Anche qui si stabilisce una forte criticità, perché impresa e risorse territoriali possono entrare in rotta di collisione e confliggere nei loro obiettivi.
Se per un ulteriore approfondimento, ci soffermiamo su quella tipologia che una volta sarebbe stata definita “della manifattura”, possiamo constatare quanto dentro di essa siano mutati il contenuto di informazione e la modalità del suo trasferimento e quanto, con essi, sia cambiato l’assetto produttivo.
La novità nasce in primo luogo nella fase di fabbricazione in senso stretto e consiste nell’abbandonare l’idea di un processo lavorativo fatto di sequenze temporali successive e predefinite, il cui contenuto di informazione si viene a manifestare a lavorazione compiuta, a pezzo finito. In uno schema siffatto l’informazione utile ad una fase successiva proveniva dalla forma, dai contenuti e dal grado di completamento di un manufatto trattato da una lavorazione precedente (non a caso chiamato semilavorato). L’informazione utile contemplava quindi un prima e un dopo, era “decodificata in compimento”. Si sta passando ora ad un sistema di assemblaggi che potremmo definire paralleli, nel senso che lavorazioni fisicamente separate, non contigue, vengono riunificate in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo si decida, secondo sequenze non predeterminate ma proceduralizzabili a seconda delle esigenze. Ciò é reso possibile dal fatto che l’informazione contenuta in ogni semilavorato, o parte del prodotto, può essere trasmessa attraverso una sua immagine virtuale prima che esso sia realizzato, a qualsiasi distanza ed in più luoghi contemporaneamente. Il prototipo diventa così non un disegno da trasferire dal progettista all’esecutore ed a sua volta alla linea, o un modello realizzato materialmente, ma un insieme di “bit” che compare su un monitor o su qualche apposito “device” e che, quando viene trasmesso e analizzato digitalmente é accompagnato da bits di riconoscimento. Questa rappresentazione immateriale può così essere spostata alla velocita’ della luce con pochissima energia e venire riconosciuta ed esaminata, sia quantitativamente che qualitativamente, ad esempio da un computer sulla base di un programma . E proprio sulla base dei bits di riconoscimento che accompagnano le loro rappresentazioni, le parti reali di un prodotto possono venire assemblate secondo sequenze di esecuzione di volta in volta diverse per luogo, tempo, destinazione. In definitiva, da una linea meccanica di trasporto localizzata, si passa ad un algoritmo contenuto in un programma,che tratta i bits di riconoscimento secondo procedure che usano calcoli matematici e che agiscono, se occorre, in luoghi diversi e separati. Sono procedure atte a stabilire il miglior criterio di assemblaggio secondo cui riorganizzare di volta in volta singole linee o più luoghi di lavoro o più prestazioni disperse comunque dislocate. Programmi che governano i tempi di esecuzione da valle a monte (kanban), tenendo conto anche dell’ambiente circostante e delle sue reazioni.
Nel processo di lavorazione così innovato non c’è una fase necessariamente più strategica di altre, dato che, se ci fosse in una data situazione, potrebbe essere teoricamente rimossa e spostata nello spazio e nel tempo per ottenere condizioni più favorevoli. Strategici ( e quindi punti critici) sono invece il controllo dell’algoritmo (il programma) e la movimentazione dei prodotti materiali laddove essa risulta strettamente indispensabile. Nel modello più evoluto, il criterio ordinatore risiede in un programma che riceve direttamente inputs da lavoratori che stanno contemporaneamente in produzione, anche se in luoghi separati, non importa quanto lontano. Essi devono disporre con totale flessibilità della propria prestazione, indipendentemente dai loro ritmi biologici.
La saturazione totale del tempo, ben oltre l’accorciamento delle operazioni, costituisce il salto tra il nuovo paradigma e il vecchio vincolo taylorista.
Qui c’é un’ulteriore esasperazione di quella separazione tra tempo dell’ esistenza e tempo della produzione che é caratteristica della fase attuale. L’evoluzione della produzione snella ha realizzato quella separazione tra spazio e tempo che era stata possibile solo alla matematica, non all’esperienza. Nemmeno il fordismo aveva osato tanto: la catena riuniva spazio e tempo in un unico sistema di coordinate ed era concepita per accelerare i tempi in uno spazio artificiale, appositamente creato per l’assemblaggio.
Insomma, la verticalità del processo produttivo – distributivo é stata sconvolta secondo una dimensione orizzontale, in cui non si ritrova più né la concentrazione dello spazio , né la cadenza vincolata del tempo, ma, invece, si dà vita ad una espropriazione incessante del tempo fin qui dedicato alla riproduzione, alla socializzazione, alla libertà individuale, alla creatività fuori dal lavoro, all’ “ozio”.
Secondo l’impostazione analizzata, il sistema informatico funziona al meglio ed esprime il massimo della sua efficacia anche se gli addetti alla produzione si trovano in luoghi separati, ma in comunicazione e purchè il trattamento dell’informazione sia reso possibile dagli inputs che i lavoratori sono tenuti ad immettere durante il normale lavoro e che richiedono tempo ed attenzione negli intervalli tra una operazione e l’altra, pur non essendo mai stati contrattati. Sui luoghi di lavoro il sindacato purtroppo non riesce a contrattare né le modalità di prestazione “dell’attenzione” dedicata a rispondere ai sensori del sistema informatico, né i tempi impiegati a trasferire le decisioni e le valutazioni agli elaboratori in linea. Il lavoratore consegna un prodotto ed una informazione associata, ma non viene compensato per l’informazione, anche se essa richiede applicazione mentale, aumenta la produttività della sua prestazione e riduce il lavoro necessario e, quindi, crea disoccupazione.
Qui sta una delle ragioni per una riduzione consistente e generalizzata dell’orario di lavoro.. La flessibilità e la modularità della prestazione possono essere riprese solo dentro questo schema, con soluzioni innovative come quella della “banca del tempo” già avanzata dalla SPD e dalla IG Metall e analizzata da Cerruti 15.
Il tempo é anch’esso e sempre di più un fattore critico. Esso diventa la risorsa strategica da cui dipendono diverse soluzioni e sul cui governo è aperto uno scontro molto duro16 . Sia, come detto, il tempo di lavoro, da cui sono espropriati lavoratrici e lavoratori in una organizzazione fortemente competitiva, sia il tempo legato alla riproduzione sociale e alla propria vita, cui è negata una corrispondente autonomia.
Qui stanno molte delle intuizioni di Lunghini sui lavori “concreti” 6 e di Rifkin sul “terzo settore” 17
Secondo questi autori, una organizzazione della produzione tutta finalizzata al consumo non si occupa dell’attività di riproduzione. Sono infatti crescenti i bisogni sociali insoddisfatti e diventa possibile riprodurre la società traghettando fuori dalle relazioni di mercato strati di popolazione oggi frammentati nei loro interessi vitali .
C’è quindi un’urgenza sociale, e non solo la pressione dovuta alla competitività economica, che solleva domanda di lavoro, a partire dal ripristino dei legami sociali e dal reinserimento degli esclusi. Ma non solo: la socialità può essere assunta come risorsa organizzativa anche rispetto la produzione, poiché “l’economia avanzata funziona sempre di più mediante l’extraeconomico”14. Occorre perciò porre il problema di rivendicare reddito anche per attività non mercantili, sia per migliorare la qualità della vita, che per incontrare la dimensione sociale della produttività.
C‘é infine una questione legata al tempo che riguarda le nuove figure messe al lavoro, spesso in posizioni di cerniera o di frontiera tra il lavoro salariato ed il lavoro indipendente. Anche il lavoratore “autonomo”, l’artigiano individuale o il professionista che lavorano su commissione e non sono salariati, sono costretti ad integrarsi nell’azienda che comprerà il prodotto del loro lavoro.
L’investimento personale di questi soggetti in addestramento, conoscenza, sapere, richiede tempo, che non viene retribuito . In questi casi il rischio della formazione ricade direttamente su chi presta il lavoro, senza costi per l’impresa committente. Si tratta, come nel caso trattato sopra, dell’attenzione prestata dai lavoratori dipendenti e né contrattata né retribuita, di una funzione lavorativa risparmiata dall’impresa e non contabilizzata, nonostante sottragga e consumi tempo individuale. Un lavoratore, anche se non dipendente nel senso tradizionale, dovrebbe ottenere una forma di garanzia sociale per il proprio addestramento e ottenere tempo retribuito per studiare. Un compenso, cioé, per un tempo non strettamente produttivo solo ai fini aziendali. Ma ciò non avviene: l’esternalizzazione, anziché il riconoscimento e la socializzazione, sembra la caratteristica cui guarda l’impresa che si globalizza. Una formidabile organizzazione dei fattori produttivi, così in rotta con la sua manodopera da considerare il “ posto di lavoro “ un artificio sociale anziché un diritto, e da sostituirlo con i contratti d’affitto.
10. L’impresa come metafora del “vivente” e la logica dei modelli
La cultura occidentale è fortemente influenzata dal ricorso ai modelli. La matematizzazione delle scienze sociali 18, se da una parte ha potenziato la capacità di previsione, dall’altra ha frequentemente ingenerato rischi di semplificazione. Nondimeno la logica della “rete” e “dell’autoorganizzazione lenticolare dei processi di autopoiesi”19 sembra ben descrivere il nuovo modello di produzione e tende ad assimilarlo alla rappresentazione degli organismi viventi .
L’impresa , criterio organizzatore non solo dei fattori produttivi, ma anche delle risorse cognitive e culturali non direttamente impegnate dalla produzione ed in pretesa simbiosi con il contesto economico e sociale che la circonda, viene descritta ormai come un sistema. Essa deve tener conto di una grande quantità di variabili difficilmente ordinabili, e di interagire con successo con l’ambiente in cui opera.
Non è più possibile, pertanto, identificarla con la produzione in senso stretto e nel descriverne il funzionamento circoscrivere l’attenzione solo alla soluzione dei suoi problemi interni di natura tecnica o economica. L’impresa comunica continuamente con il suo ambiente e lo fa attraverso persone che si avvalgono di nuove potentissime tecnologie.
Molti sono i contributi che hanno indirizzato in questi anni la ricerca all’interrelazione tra informatica e società 20 , o che hanno posto l’attenzione sul ruolo delle persone e della comunicazione nello sviluppo delle organizzazioni.21
L’enfasi sulla società e sulle persone ha reso insufficienti gli approcci rigidamente deterministici ed ha provocato il superamento di analogie puramente meccaniche, anche nelle forme più evolute come quella dell’orologio. Per affrontare l’elevato grado di complessità di un sistema in un determinato ambiente si è fatto riferimento al contesto concettuale proprio dei sistemi viventi. E di fatto la tendenza all’utilizzazione della metafora del sistema vivente per lo studio dell’impresa è ormai affermata. Lo dimostrano alcune rappresentazioni della vita dell’impresa che ricorrono a concetti che provengono dalla biologia e dalla genetica ( equilibrio dinamico, processo di regolazione, stabilizzazione verso l’ambiente esterno) od il ricorso all’intelligenza artificiale ed alla cibernetica, al confine tra ingegneria, elettronica, neurologia e fisiologia, per il controllo delle conoscenze e l’organizzazione della comunicazione.
In definitiva, il modello che si è creato per descrivere il comportamento dell’impresa e per pianificarne l’espansione ed il successo, è mutuato da diverse discipline scientifiche e sociali. Esso ha potuto contare su una committenza illuminata, cui ha risposto uno sforzo congiunto dell’insieme del mondo universitario e degli istituti di ricerca che, mentre procedevano nell’indagine strettamente disciplinare, fornivano parimenti modelli e spunti per descrivere i comportamenti socioeconomici.
Il contribuito più rilevante è provenuto da quelle discipline scientifiche e dall’applicazione di quelle tecnologie che trattano le organizzazioni come forme di vita e l’informazione e la conoscenza secondo schemi che sono la proiezione della mente umana.
Il trasferimento analogico al campo socio-economico dei risultati conseguiti nell’ambito delle scienze della vita ha aperto così potenzialità assolutamente imprevedibili. Questo trasferimento ha consentito di includere nel trattamento dei sistemi sociali anche i flussi di informazione, estendendo per questa via allo studio dell’impresa i risultati delle ricerche termodinamiche applicate agli esseri viventi19.
Sono diversi i punti di vista che entrano in campo e diversi gli effetti che si possono mettere a fuoco, utilizzando la potenza dell’analogia. Per darne un esempio, ricorro a metafore tratte dalla biologia applicate ai sistemi sociali, per trarre tre conclusioni metodologicamente ineccepibili, anche se sostenute da argomentazioni non tradizionali:
a) Per il secondo principio della termodinamica un sistema vivente (e, per analogia, quindi, anche l’impresa) rimane in vita solo smaltendo nell’ambiente l’eccesso di entropia negativa 9. Quando l’impresa aumenta il proprio ordine e “sta in vita”, crea disordine nell’ambiente naturale e sociale. Quanto più è complesso l’ordine raggiunto e quanto più è veloce e potente il suo “metabolismo”, tanto più grande è il disordine indotto. Se poi l’ordine ottenuto è su scala planetaria, gli effetti distorsivi si manifestano su quella scala. La lotta per un sistema di produzione e di consumo più conservativo, più lento e, quindi, a minor disordine ambientale (improntato a manutenzione, riciclo, risparmio ed alimentato da energia rinnovabile) é in opposizione ai criteri di competitività globale che guidano la crescita in corso. Per ridurre l’entropia sociale occorre cooperazione e riduzione della velocità del metabolismo artificiale, come previsto dal “Gruppo di Lisbona” .22
b) D’altro canto i sistemi biologici sono capaci di riprodursi mantenendo invariata la propria identità poiché o modificano a proprio favore l’habitat o adattano la propria fisiologia ai mutamenti dell’ambiente in cui vivono. Anche l’impresa tende a percepirsi con una identità propria, separata rispetto all’ambiente ed a trattare quest’ultimo in funzione della propria struttura interna, oltre che della propria missione.
Due sono le strade percorribili all’impresa: quella del conflitto e dell’appropriazione o quella della socializzazione. La prima é largamente prevalente . Perciò l’ambiente sociale risulta agito, in quanto è avulso dalla realtà costituita in funzione della propria organizzazione e della propria missione, quando essa coincide con la massimizzazione a breve del profitto.
c) L’impresa moderna ha bisogno di aggiornare continuamente il suo rapporto con il mercato. Essa si comporta come un sistema cognitivo. I sistemi cognitivi autoapprendono e la funzione fondamentale dell’impresa diventa di conseguenza quella di rendere produttiva la conoscenza. Ciò rende conto dell’esplosione del ricorso all’informatica per fini produttivi, prima che sociali.
Ho evidenziato tre considerazioni sull’impresa derivate da culture specialistiche per rendere conto di come la conoscenza dei modelli scientifici fornisca all’analisi deduzioni non traibili agevolmente per altra via, anche se della loro pertinenza in assoluto bisogna sempre ragionevolmente dubitare. Ha infatti ragione Cini8 quando afferma che “quanto più si tratta di fatti che riguardano la vita o la convivenza umana, tanto più le deduzioni scientifiche interagiscono con la sfera dei giudizi di valore”.
Entro questi limiti, e , continuando sul filo del ragionamento precedente, possiamo spingerci ad una conclusione impegnativa. In base al secondo principio della termodinamica, nessun sistema “vivente” può avanzare verso il futuro più rapidamente del proprio contesto: sistema produttivo d’impresa ed ambiente sociale devono avere una forma cronologica comune.
Oggi si provoca invece un intollerabile disordine (sociale, economico, naturale) , mentre il sistema delle imprese si ordina su scala globale. Ma, quel che più preoccupa, siamo ad una separazione del tempo della produzione dal tempo dell’esistenza e ad una accelerata produzione di nuova conoscenza, che risulta destabilizzante. Dal punto di vista termodinamico, si direbbe che siamo di fronte ad una crisi irreversibile dello sviluppo.
Quando, come nella cultura dominante, si ritiene che l’impresa sia l’unica base su cui si edifica la società, si compie probabilmente un errore di prospettiva, che potrebbe avere conseguenze irreparabili.
11. Desensorializzazione della comunicazione e dinamica del consenso
E’ mia convinzione che il carattere pervasivo della propaganda attraverso il sistema dei media costituisca un aspetto saliente della trasformazione in atto, intimamente collegato al cambio di paradigma esaminato.
Introduco quindi una serie di considerazioni distinte, ma tra loro correlate, per dar conto del peso che le tecniche della comunicazione assumono nell’evoluzione in corso non solo all’interno della produzione, ma nell’influenzare le relazioni sociali.
Il tecnocentrismo occidentale ha il suo motore nella straordinaria capacita’ di “matematizzare” la natura che la scienza acquisisce dal ‘600 in poi. Con una sofisticata strumentazione tecnica, un apparato concettuale molto evoluto e con una organizzazione economico-produttiva ben predisposta, la pretesa pitagorica di fondare sul numero l’interpretazione del mondo ha ottenuto nell’era moderna una decisa e fortunata accelerazione. Non tanto per penetrare l’essenza del mondo fisico o delle relazioni sociali, quanto per descrivere ( ma in modo che ormai é riconosciuto virtuale, poiché da tempo la fisica e le altre scienze fondamentali hanno abbandonato l’illusione di poter cogliere la verità del reale) i comportamenti di essi e la loro evoluzione. Si tratta di una descrizione che ricorre a modelli, teoria ed algoritmi che, senza dover prendere in considerazione la natura delle grandezze esaminate, obbediscono a proprie leggi ed a regole formali astratte. Ridurre un evento, un comportamento, financo un sentimento o una aspirazione a numero, non significa intimamente “conoscerlo” bensì poterlo, da quel momento in poi, manipolare secondo le regole della matematica. Questo processo è dotato di indubbia forza intrinseca ed il ricorso ai metodi della scienza avvalora una presunta veridicità dei risultati anche quando essi sono fortemente manipolati a livello cognitivo. In particolare, nel caso delle relazioni sociali, il ricorso alla tecnica e alla matematica, la riduzione cioè a numero, rendono più problematica l’attivazione di una azione critica. Di conseguenza si è più esposti ad una rappresentazione distorta della realtà esaminata ed a simulazioni fortemente condizionate dai punti di vista dell’esaminatore. Quando si è sottoposti ad un sondaggio non si e’ interpellati, ma e’ quello che in noi fa numero ad essere interrogato. 23
L’invenzione dell’elettricita’ ha determinato dei cambiamenti profondi nel modo di percepire il tempo e lo spazio : oggi l’elettricita’ e l’elettronica hanno aperto la strada alla comunicazione planetaria, all’unificazione organica dell’esistenza sul pianeta e alla possibilità di creare una “biosfera tecnologica” popolata da “materiali intelligenti” e da macchine capaci ormai, si direbbe, di autonomia di pensiero . Ma da una parte velocita’ di movimento e estensione planetaria delle nostre tecnologie, dall’altra lentezza ed estensione limitata del nostro essere fisico e psicologico, hanno creato una destabilizzante sproporzione. Di nuovo, il numero sembra venire in soccorso a questa sproporzione: attraverso la tecnologia digitale e lo sviluppo dei sensori tutte le attività’ dei cinque sensi possono essere codificate in cifre, trasmesse ovunque istantaneamente e simultaneamente, ritradotte in qualsiasi parte del mondo in immagini, suoni, e, magari fra poco, calore ed odori, anche se per questa via vengono desensorializzate.
E’ una parte evidente dell’attivita’ umana, della coscienza e dell’attivita’ di relazione così come è stata storicamente vissuta, che viene messa alla prova. La nostra estensione è senza confini: le tecnologie infrangono le barriere dello spazio e del tempo, ma spersonalizzano.
Non si tratta solo del contatto fisico, affettivo, “umano”. E’ in gioco addirittura la costituzione della soggettività e la formazione di quelle identità collettive che danno vita ai soggetti sociali.
11.3 Perdita del “punto di vista”
La comunicazione attraverso l’alfabeto, il primo “software” in grado di rappresentare con pochi simboli ricorrenti tutta la catena parlata, ci aveva abituati a concettualizzare e a formare un proprio punto di vista da cui partire per le nostre relazioni col mondo.
Ogni importante rivoluzione tecnologica, come è avvenuto per la scrittura, ha richiesto un notevole sforzo di adattamento sociale. In particolare, attraverso gli strumenti di informazione e comunicazione sono stati influenzati gli strumenti di partecipazione e, quindi, della democrazia. La stampa ha favorito la riflessione intellettuale e il formarsi e il diffondersi di una coscienza individuale. Dopo l’invenzione della stampa, l’informazione circolante è passata in gran parte dalla lettura e, in questo caso, é stata filtrata attraverso strumenti concettuali indipendenti dalle convinzioni dell’autore. Chi controlla la propria informazione “controlla se stesso”, come afferma De Kerchove23. Anche se la cultura della scrittura si comporta come una “macchina di conquista” 24 che ricorre alla divulgazione e all’educazione, nondimeno l’argomentazione, la convinzione, il dissenso propri di quella cultura traevano la loro legittimità da una razionale separazione dall’emotività. Qui stava un certo significato della democrazia, che aveva ispirato in maniera abbastanza lineare le conquiste sul terreno istituzionale dalla Grecia fino alle grandi Costituzioni moderne. Una testa ( si badi, non un corpo, o due occhi o una lingua) un voto, significava, anche fisicamente, autosufficienza di sé e piena coscienza delle proprie relazioni. Oggi questo quadro sta rapidamente perdendo la sua coerenza e sfugge all’autocontrollo.
La digitalizzazione consente di trasferire cio’ che i sensi percepiscono, senza il filtro del proprio punto di vista, cui ci abituava e costringeva la lettura. Con i media elettronici l’informazione e’ trattata per noi. Il nostro controllo diventa meno significativo. C’è una certa scissione tra i fatti vissuti e quelli presentati, ad esempio dalla TV. Quante volte l’esito di una riunione a cui partecipiamo vale anche per noi per come viene riportata dai media? Ma mentre il commento della stampa passa attraverso il nostro giudizio personale, il reportage televisivo ci lascia più fragili, in quanto ad autonomia. In più, l’informazione in contemporanea su scala mondiale precede la stampa, che invece commenta gli avvenimenti dopo. Le due immagini si sovrappongono nella coscienza, con l’impressione fallace che la prima, percepita attraverso i sensi e senza il tramite della lettura, sia anche quella più veritiera.
In effetti, assai più della stampa, la televisione rivisita l’informazione per noi, introduce in sostanza l’avvenimento dove sta lo spettatore, elimina il punto di vista individuale, poiché per comunicare utilizza il suono ed le immagini anziché la scrittura. Inoltre, suscita risposte piu’ sensoriali che logiche, aumenta l’efficacia di una informazione orchestrata e sovrapponibile ai criteri personali di valutazione. Per tutto ciò’ risulta decisiva per creare consenso.
11.5 Testo, immagini, ipertesto
Forse stiamo assistendo ad un certo declino della parola e della sua funzione centrale nelle relazioni umane. La parola udita o scritta sottintende tempo per meditare, per interiorizzare, per sospendere il giudizio, per reagire ascoltando o leggendo. La città é nata sulla parola, perché la città si fondava sulla prossimità. La rapidità dello scambio dovuta ai mezzi di comunicazione che viaggiano con la velocità della luce tende invece ad abolire il tempo della riflessione, che é intrinseco e necessario alla democrazia. Una democrazia del sondaggio, dell’Auditel, in effetti, prefigura un governo automatico, dove ad “una testa un voto” si sostituisce “una reazione un voto”, senza contare se c’é stata condivisione della conoscenza o se si é dato luogo ad un dibattito in comune.
Il passaggio progressivo da una comunità viva e da una città reale ad una comunità e ad una città virtuale porrebbe enormi problemi: eppure, mentre si procede in questa direzione, la riflessione politica sembra annaspare, non adeguarsi in tempo.
Occorrerebbe porsi a fondo il problema dell’influenza delle nuove tecnologie sul formarsi delle funzioni cognitive e di apprendimento, sul prodursi delle esperienze sensoriali e sui comportamenti sociali che ne derivano. Per farlo, é necessario porre in evidenza la prevalenza progressiva dell’immagine sulla parola e lo sconvolgimento logico prodotto dall’organizzazione ipertestuale dell’informazione.
Per ragioni soprattutto economiche, si impara ad essere brevi. Il “clip” é diventato l’unità di misura del discorso ed il dibattito vivo é sostituito da “flash” che lo dovrebbero rappresentare. E cosa c’é di meglio di un’immagine per esprimere il massimo di sintesi? Ma, attenzione: un’immagine elettronica é ben altra cosa dalle rappresentazioni che storicamente l’uomo ha conosciuto.
Noi siamo stati abituati all’immagine come prodotto dell’arte o della mediazione del nostro sentire. Ma l’arte non economizzava le energie, poichè l’artista, per ottenere un risultato puntuale, lavorava tantissimo, faceva uno sforzo colossale. Così, l’immagine era anche tempo: quello che ancora si spende per contemplare le opere in un museo o per ammirare il paesaggio dal nostro balcone o per essere coinvolti da una sequenza al cinema.
Le nuove tecnologie (la TV di oggi, quella di domani o il programma che struttura le “home pages” del Web) compattano e decompattano artificialmente il tempo dell’immagine, che si riduce a una sommatoria di istanti senza storia. Ne segue che ogni immagine prodotta ed elaborata conta più come elemento singolo che come parte di un flusso, più come tassello di un mosaico che come discorso in formazione. In più, si fa sempre più autoreferenziale, più facile da manipolare, con un contenuto informativo slegato dalla realtà da cui proviene.
In definitiva, é sempre più probabile che un’immagine virtuale, presunta vera, possa sostituirsi ad un testo o mescolarsi ad esso, come avviene ormai nei documenti elettronici elaborati o trasmessi dai computers.
Questo mix in cui l’immagine cattura l’attenzione ed il testo serve solo a commento, é la nuova cellula informativa su cui si va strutturando la comunicazione nelle reti. Siamo ormai lontani dalla fotografia o dal film: i colori o i contorni non riproducono la realtà e nemmeno ne sono la registrazione. Addirittura, quello che si sarebbe dovuto mettere per iscritto può essere incorporato come effetto di sensazioni nel prodotto elaborato digitalmente, di cui non é più scontata la veridicità. Ma come si decodifica il suo contenuto? Valgono gli stessi schemi o le stesse procedure sperimentate per la parola scritta o ascoltata? Come si ricostruisce in questa situazione il proprio “punto di vista”?
Un secondo elemento strutturale, legato alle nuove tecnologie, ha effetti dirompenti nel dare ordine all’informazione secondo sequenze che non sono più concatenate dalla successione temporale. Si tratta dello schema che si definisce dell’ipertesto.
Si é discusso a lungo, nei paragrafi precedenti, di come la produzione postfordista abbandoni le sequenze temporali a favore dell’istantaneità e dei collegamenti spaziali discontinui. Anche la conoscenza e le informazioni si riorganizzano in processi analoghi. Mentre i libri, i films, le videocassette prevedono un’informazione dopo l’altra e forniscono un accumulo di conoscenze progressivo – parole in sequenza, pagine successive, scene concatenate – l’esperienza di chi naviga in Internet non procede più per successioni temporali. Tutto é disponibile all’istante e dovunque, raggiungibile senza ostacoli alla velocità della luce. Basta che un “link”, un collegamento, consenta di saltare ad un livello di informazione più interno o più esterno di quello in cui ci si trova, proiettandoci in un documento totalmente separato, quasi sempre redatto indipendentemente dal percorso di chi vi accede. La logica dei collegamenti é tutt’altro che strutturata ed é sostanzialmente stabilita da un puro atto di cortesia (chi redige un documento inserisce i “links” che gli sembrano più opportuni), mentre la sequenza – la storia di ogni percorso conoscitivo – è completamente lasciata al navigatore. Si é così persa quella logica temporale che porta alla fase successiva solo dopo l’assimilazione della fase precedente e la si é rimpiazzata con un percorso dettato soprattutto dalla curiosità e dalla reazione istantanea alle opzioni quasi casualmente incontrate.
Se, infine, l’informazione, come ormai succede, é ridondante e dilatata senza limiti, che tempo c’é per ricostruirne di nuova, per lasciare traccia di sè e dell’ascolto che si é prestato o delle annotazioni che abitualmente una relazione diretta fa trapelare?
Sembra che si vadano separando le funzioni di chi crea l’informazione e di chi, per curiosità o per necessità, si imbatte con essa senza influenzarla.
Si complica così il passaggio da una informazione, ormai senza limite, ad una conoscenza, ormai senza responsabilità.
Occorre uno straordinario sforzo di educazione per consentire a ciascuno e a tutti di districarsi e muoversi autonomamente nel nuovo panorama della conoscenza e delle informazioni, soprattutto di fronte al fatto che una logica mercantile e commerciale si va impadronendo del futuro delle reti informatiche.
11.6 Propaganda, media e democrazia
Come possiamo constatare, la tecnologia delle comunicazioni video-elettroniche ha assecondato una svolta avvenuta nella concezione del potere e della democrazia. La politica diviene virtuale, può più facilmente separarsi dalla questione sociale e accentuare una propria dimensione, se i soggetti sono frammentati ed espropriati del loro punto di vista. I media elettronici sembrano adatti a costringere lo spettatore a concepire gli avvenimenti in maniera acritica, rispetto al punto di vista del produttore delle immagini ed a farsi modellare dall’esperienza, invece di tentare di plasmarla.
Nella prima parte di queste note, abbiamo cercato di dimostrare come la fase postfordista sia caratterizzata dalla mancanza di un compromesso sociale. La ricerca di consenso attraverso “il risarcimento” nell’area del consumo e del welfare rispetto all’espropriazione dei fini del proprio lavoro, non e’ piu’ necessaria. In un meccanismo che prevede l’esclusione, il consenso sembrerebbe assai piu’ assicurato dalle tecniche di propaganda che non dal progetto politico che garantisce al cittadino diritti universali e sociali in particolare. E’ sufficiente che l’orizzonte dei potenziali inclusi, attraverso promesse virtuali, sia allargato in occasione del momento elettorale.
Si puo’ arrivare a dire, con qualche esagerazione che potrebbe parafrasare le lucide anticipazioni di Orwell, che la funzione di cooptazione nel modello sociale svolto per il sistema fordista dalla estensione del welfare anche oltre il lavoro dipendente, sia stata cinicamente soppiantata da un ricorso ai mass media asfissiante, coercitivo e prescrittivo, che colonizza il tempo di non lavoro e cerca di conculcare il modello di società per cui varrebbe la pena di vivere.
In una democrazia degli “spettatori”, come la definisce Chomsky25, finalizzata al primato esclusivo degli interessi economico-finanziari, il potere si concentra in istituzioni tendenzialmente totalitarie nella loro struttura interna: è congeniale allora ad un potere siffatto ridurre la partecipazione diretta e permettere al cittadino di esprimere il suo sostegno o il suo dissenso solo una volta tanto ad un leader. Un apparato sottile di propaganda convince questo cittadino a condividere un sistema di valori in cui identificare l’interesse comune. L’”Americanismo”, che secondo Gramsci faceva da cemento politico-culturale al successo del fordismo, e’ sostituito così da una immagine virtuale dell’Azienda-Nazione che e’ delineata, riprodotta, diffusa e propinata in ogni casa senza tregua dai media e dalla televisione in particolare. La realta’ dello schermo e’ tutto quel che si vede e la proprieta’ dei media cerca di divulgare un’unica visione della realtà, avendo una sorta di compito istituzionale, che e’ quello di creare il sistema di credenze che assicurerà efficacia all’ingegneria del consenso.
La televisione e’ per generale ammissione il mezzo più idoneo per individuare un leader. In tal senso quanto più evidenzia le persone rispetto ai programmi, essa orienta il suffragio popolare, mettendo in ombra il ruolo decisivo che lo stato sociale o la politica per l’occupazione si erano conquistati. Così, di fronte a tanta potenza nel mercato politico, la indipendenza degli uomini che indirizzano l’opinione pubblica è messa sotto pressione e frequentemente viene meno.
I media, essendo diventati un potere importante a fianco di quello politico, non sviluppano piu’ capacita’ autocritica e la stampa, che storicamente si era costituita in contrapposizione al potere, sovrastata dalla televisione, si identifica sempre di piu’ con il potere stesso. Essendo necessario informare con grande rapidita’, la tempestivita’ e’ proposta in luogo della veridicita’ o dell’autenticita’. Il circolo si chiude. Gli stessi Governi diventano ormai sempre piu’ responsabili non verso il popolo e le Assemblee elettive, ma verso i media e gli istituti di sondaggio26.
12. Le contraddizioni e le potenzialità delle reti
Per concludere, ritengo utile introdurre qualche riflessione sulle contraddizioni e sulle potenzialità che offre alle relazioni interpersonali e all’agire politico 27un sistema quale quello delle reti, che si può definire connettivo, ma non ancora di destinazione e di uso collettivo.
Il settore che conosce la maggior espansione economica e’ quello della comunicazione, che attira massicci investimenti del mondo industriale e delle banche. L’informazione e’ ormai trattata come una merce ed essa stessa promuove merci28. Si è aperta una contaminazione fra la produzione materiale ed il consumo virtuale che è affidato al mezzo elettronico. Nella societa’ dell’immateriale il luogo della circolazione delle merci non e’ piu’ materialmente solo il mercato. Anzi, la televisione rappresenta il centro della produzione economica simbolica ed il consumo di massa passa attraverso gli schermi televisivi. Col tempo, questa funzione potrebbe essere soppiantata dalle reti e questa sembra una delle possibili evoluzioni di Internet, anche se l’alfabetizzazione necessaria ed il costo delle tecnologie rendono per ora futuribile la concorrenza diretta della “rete delle reti” al messaggio televisivo. Già da ora, tuttavia, si pone in maniera acuta, anche sul piano strettamente economico e non solo su quello delle tutele democratiche, la questione della proprieta’ dei nuovi mezzi di comunicazione, che intrecceranno il computer al telefono e alla TV.
Dobbiamo innanzitutto riconoscere che siamo di fronte al tentativo di ricostruzione di un sistema egemone di civilta’ supportato da obiettivi ideologici ed economici tra loro in sintonia. “Si appresta una nuova filiera (all’incrocio tra industria informatica e telematica), la cui espansivita’ non sta nell’eccellenza tecnologica, ma nell’adesione alle forme determinanti di socializzazione e alla diffusione dell’individualismo di massa” 1 . Si capisce allora come proprio il sistema delle imprese cerchi di impedire che la sfera pubblica debba e possa avere un suo terreno di intervento anche nel nuovo campo delle comunicazioni, pur avendo coscienza che esso interagisce in maniera decisiva con il sistema sociale.
Per quanto riguarda le tecnologie di tipo “neurale” (le reti di computer) ritengo utile evitare di ragionare in termini prevalentemente di opposizione. Occorre innanzitutto battersi perchè l’intelligenza collettiva non resti prigioniera del solo criterio economico. Con le reti gli individui possono riprendere il controllo del linguaggio e perseguire obiettivi sociali collettivi, essendo possibile l’istituzione di una interazione fra persone e soggetti sottratta al primato del sistema d’impresa globale. Ciò vale anche per le organizzazioni sindacali che rivendicano una loro funzione di soggetto politico e sostengono un loro progetto sociale autonomo29.
Sono convinto che la creazione di comunità di rete in uno spazio scorrelato dal mondo reale rimanga un’illusione, un’astrazione ipertecnologica che sarebbe dettata dalla convenienza economica; occorre, al contrario, far sì che il corpo sociale abbia presa sui nuovi mezzi di comunicazione.
D’altro canto, il tramonto della “destra elettronica” negli Stati Uniti, (quella raccolta attorno a Newt Gingrich) che coniugava la rottura dei patti sociali con una strategia in campo economico e politico fondata sulla combinazione rapida delle mosse giuste da fare, come nei giochi al computer, rappresenta forse il successo più avanzato di Clinton e Gore ed ha a che fare anche con l’organizzazione delle comunità delle reti e con la loro resistenza, che punta a rimettere nel circolo della decisione sociale e politica anche la maggioranza che non vota.
12.2 Forme nuove di comunicazione
Assieme al procedere della digitalizzazione dell’informazione e della planetarizzazione delle comunicazioni, che portano con sé “desensorializzazione e deterritorializzazione”, si avverte purtroppo una progressiva distruzione del legame sociale. Queste formidabili tecnologie sembrano quindi favorire e non certo contrastare il procedere dell’emarginazione e dell’esclusione che sono prodotte dal nuovo modello produttivo. Eppure non bisogna sottovalutare che, a loro volta, la penuria prodotta socialmente e l’esclusione organizzata provocano smarrimento, bisogno di legame, di riconoscimento, di identita’, che trovano soluzione attraverso forme di comunicazione nuove, che non sono certo impersonificate dalla TV e che riguardano solo in misura marginale le forme tradizionali della scrittura e della lettura. In un contesto certamente interessante e molto controverso prendono piede le esperienze dei circoli, la ripresa di una tradizione culturale territoriale su base orale e visiva, le forme di incontro attraverso i concerti, le fiere come terreno di scambio non puramente monetario, i mercati locali, le radio sul territorio, fino alla crescita delle reti civiche e l’esplosione di Internet. C’è un che di locale e di globale, di squisitamente corporeo e di ipertecnologico anche nelle nuove forme della comunicazione, che andrà osservato attentamente.
La difesa della democrazia e lo stesso sviluppo delle forme secondo cui essa evolve devono tener conto di novità non marginali negli aspetti della convivenza, che occupano tanto i canali di comunicazione immediati quanto quelli più sofisticati e che mi sembrano rispondere a bisogni in controtendenza all’emergere contemporaneo di elementi regressivi, come la proliferazione di razzismi, integralismi, neonazionalismi di stampo leghista.
Nell’accesso al settore della comunicazione e dell’informazione e nella progettazione della struttura chiusa o aperta che esso assumerà si sta giocando già ora una partita decisiva, in particolare per quanto riguarda il futuro della partecipazione, l’uguaglianza, la lotta all’esclusione30 .
E’ sorprendente come invece l’iniziativa delle organizzazioni politiche della sinistra, delle associazioni, dei movimenti, dello stesso sindacato sia al di sotto della portata delle questioni in campo.
C’è sì la questione del pluralismo e delle concentrazioni nel campo dell’informazione e degli assetti del mercato in quello delle telecomunicazioni. Ma c’e’ anche il problema, assai meno indagato e più profondo, del rapporto tra il cittadino, l’associato, il lavoratore e i nuovi linguaggi, della sua alfabetizzazione e del suo accesso, magari tramite la sua organizzazione, ai saperi e alle informazioni distribuite. C’é in definitiva la questione della conseguente liberazione da uno stato di disparità e subalternità: senza un enorme sforzo per garantire parita’ di accesso ai nuovi mezzi e possibilità di interazione, non solo individuale, verrebbe ancor più intaccata l’uguaglianza sociale e si ridurrebbero le opportunità di far crescere modelli di produzione e consumo alternativi.
Bisogna superare anche concettualmente lo schema passivo della comunicazione video. Oggi non siamo di fronte ad un’ondata di innovazione, ma , con il computer i programmi e le reti, ad una tecnologia radicalmente diversa. Le macchine elettroniche interconnesse, come già detto, non si rifanno piu’ alle funzioni degli arti, ma a quelle più complesse e interagenti del sistema nervoso. Interconnettono luoghi vicini e lontanissimi e le esperienze che vi si compiono, senza differenza di tempo. Questo spazio e questo tempo sono finora occupati sostanzialmente dalle organizzazioni economiche e dagli interessi delle imprese, del mondo finanziario, militare; solo marginalmente e in maniera debolmente e disorganicamente crescente dai cittadini; per nulla dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Sulla rete ogni “consumatore” è un potenziale “produttore” di informazioni, che possono risultare vitali per le scelte politico-economiche e per la creatività delle relazioni sociali.
E’ vero che è difficile alfabetizzare, rendere accessibile un linguaggio complesso, sostituire i canali di comunicazione tradizionali, meno efficaci ma più immediati, delle organizzazioni di massa con il ricorso a tecnologie finora elitarie, costose, specialistiche.
Ma, come a suo tempo il movimento operaio aveva varato progetti e iniziative nel campo dell’educazione nella fase della prima industrializzazione, fino a realizzare modelli retti mutualisticamente e a vincere nel dopoguerra la battaglia per una scuola pubblica di massa, occorre affrettarsi a definire progetti articolati e diffusi, per aprire spazi e canali a un utilizzo dell’interattivita’ e della cooperazione rese disponibili dalle nuove tecnologie delle reti.31
Dobbiamo renderci conto che il tratto caratteristico delle tecnologie basate sugli ipertesti, su Internet, sul Web, sul linguaggio Java non é quello della collettività, ma quello della “connettività”. Stiamo andando verso un complesso di interazione tra i media: ci sarà la TV, il testo, le reti ( in cui testo e grafica staranno insieme secondo criteri mai sperimentati). La novità sta nel fatto che l’utente può essere il creatore dell’economia delle reti, un’economia riutilizzabile; e può creare il suo tipo di associazione specifica con un riferimento a obiettivi e valori che passano dalla relazione tra identità individuali e sociali scelte in una fase che é contemporaneamente della globalizzazione e dell’involuzione ultraterritoriale e localista.
Pertanto andrebbe da subito mobilitato un grande numero di intelligenze per l’applicazione delle tecnologie dell’informazione al settore pubblico, con particolare riferimento ai settori della scuola, della salute, della tutela dell’ambiente. Ma poiché la competitivita’ globale e l’arroganza tecnologica ignorano i limiti delle soluzioni solo tecniche e trascurano i legami sociali, ci sarà un’offensiva molto dura volta a precludere l’accesso organizzato ai nuovi mezzi e a subordinare l’espansione delle tecnologie della comunicazione alle sole regole del mercato. Sta anche all’organizzazione dei lavoratori ed al programma politico della sinistra porre questioni che riguardano, nel nuovo contesto, l’evoluzione democratica, i diritti di accesso, la trasparenza, il ruolo pubblico e le risorse da mobilitare per progetti di utilità sociale che riguardano le tecnologie di rete. Solo così un loro appropriato uso renderà possibile la costituzione di quella “intelligenza collettiva” di cui tratta Levy32.
12.4 Soluzioni politiche, non tecniche
Non ci si illuda, però, che il controllo sociale di queste tecnologie possa, di per sé, sicuramente ridurre il disordine del sistema socioeconomico.
Per dimostrarlo, usiamo per analogia, ancora una volta, il concetto di entropia, secondo uno schema introdotto da Rifkin12
Applicata ad un singolo sistema, la tecnologia dell’informazione può diminuire l’entropia sua ( e quella totale) ordinandolo tanto più razionalmente quanto minori sono l’energia del sistema e il numero delle aggregazioni o dei gradi di libertà dei suoi componenti.
Ma il mondo é complesso e i suoi sottosistemi sono tanti, disaggregati e conflittuali tra loro: sono le imprese nel confronto internazionale, le società finanziarie che giocano con investimenti a breve termine sull’intera scacchiera delle borse internazionali e gli Stati “Nazionali”, che sono ormai quasi 200.
E l’entropia é una funzione additiva: anche minimizzando quella di ciascun sottosistema, la loro somma resterebbe elevata.
Sarebbe, poi, comunque un’impresa irrealizzabile tentare di mantenere costante il disordine nelle condizioni attuali del libero mercato globale: il numero dei componenti cresce con l’aumento della popolazione umana; i loro gradi di libertà si moltiplicano per l’aumento dei consumi energetici e dei flussi di denaro ( che ne accrescono la possibilità di agire) e per il diffondersi pervasivo di una marea crescente di informazioni e software (che servono anch’essi a moltiplicare la varietà dei pensieri, delle idee e dei desideri).
In assenza di un sistema di regole internazionali capace di coordinare in modo sinergico la dinamica dei questi sistemi incanalandola verso uno sviluppo ispirato a valori e finalità comuni, non sembra, insomma, esserci rimedio al grande e generale disordine economico, politico, finanziario e sociale che sempre più vediamo pervadere il mondo.
Solo la politica può dare queste regole, e in qualche modo ha cercato di farlo dentro “i confini nazionali”.
Ma la strada è ancora lunga, perché l’Onu si rivela sempre più incapace di comporre i conflitti politici e perché i mercati sono fuori controllo. Non solo quelli finanziari, che non sono regolamentati da nessun Organismo internazionale, ma anche quelli commerciali, nonostante l’esistenza del Gatt e della World Trade Organization.
12.5 Informatica, attività umana, ecosistema
Ci sono un altro paio di illusioni che occorre sfatare. La prima è che l’informazione sia una risorsa di potenza illimitata capace di soppiantare l’uomo nei processi decisionali.
L’informatica può memorizzare una mole enorme di informazioni e di programmi per elaborarli in modo razionale. Può elaborare, riprodurre e trasmettere ovunque coi suoi tempi brevissimi le informazioni. Ma non sa creare le informazioni che ricorda, non sa ideare e codificare il software che le elabora.
L’ideazione di procedimenti elaborativi e la creazione delle informazioni e del software sono atti umani, che richiedono tempi umani.
E anche quando é incorporata nei supporti informatici, (hard disk, nastri magnetici, CD) l’informazione deve sottostare ai tempi umani prima di tradursi in atti decisionali: sono uomini quelli che devono decodificarla, interpretarla, confutarla, valutarla e assimilarla per darle il significato che porta a decidere.
I tempi dell’attività cognitiva sono incomprimibili e i modi delle scelte che portano alle decisioni non sono standardizzabili.
Gli eventi umani sono una realtà in continuo divenire e si sviluppano secondo diramazioni che evolvono in mille direzioni e interagiscono mutevolmente tra loro.
L’intuizione e la sensibilità percettiva del ”politico” possono cogliere le tendenze di questa dinamica, ma il modo sintetico e globale in cui ciò avviene è nascosto nella profondità della mente. E’ per questo che, ad esempio, la saggezza, prerogativa degli esseri umani, non può essere insegnata alle macchine.
L’altra illusione é che questo modello di produzione, che utilizza l’informazione come principio strategico per reggere la concorrenza sul mercato globale, sia ecologicamente “più pulito” del precedente; che sia cioé capace di economizzare e quindi “ottimizzare”, oltre al lavoro, anche i suoi impatti energetici e ambientali.
Nel nuovo paradigma i processi di trasformazione che riguardano la produzione di merci, il carico energetico e l’impatto ambientale risultano diversamente distribuiti. Ma non é detto che siano, come parrebbe, complessivamente meno devastanti. Ora che le distanze non contano più perché l’informatica e le telecomunicazioni garantiscono comunque il tempismo e i gradi di coordinamento necessari per reggere la sfida della competizione mondiale, la compatibilità energetico ambientale delle localizzazioni non é più un problema con cui dovere fare i conti: con il mondo intero a disposizione, si trova sempre un luogo che si presta alla lavorazione voluta, disposto ad accogliere senza troppi problemi l’impianto del tipo e della taglia decise e dove, per giunta, il costo del lavoro é conveniente.
I paesi avanzati vedono, sì, con sollievo, diminuire la densità territoriale dei luoghi a rischio più evidenti, che – fuori dalla loro vista – si moltiplicano in numero e per carico complessivo sull’ecosistema.
Ma non si accorgono che, intanto, l’aumento di potenza produttiva specifica perseguita dal nuovo modello, evoca altri rischi, che sostituiscono quelli esportati.
Sono, questi, i rischi impliciti nelle eccessive concentrazioni spaziali di sostanze tossiche e di elevata intensità energetica, tanto più pericolosi perché gestiti secondo una concezione dell’efficienza che privilegia i valori del profitto attraverso l’aumento esasperato della produttività e dell’utilizzo degli impianti, anziché la valorizzazione della professionalità e della “ filosofia della sicurezza”, tardivamente scoperta dal nucleare dopo la tragedia di Chernobyl.
Nel valutare il carico ambientale di questo nuovo modello si trascura, inoltre, di computare quello dello sviluppo del “sistema nervoso” che connette i sistemi produttivi così organizzati e cioè le reti informatiche che servono a razionalizzare la produzione.
Queste reti non sono immateriali.
Esse richiedono supporti tecnologici sofisticati e costosi: reti in fibra ottica,materiali purissimi, missili, satelliti, impianti di trasmissione e ricezione spaziale, ripetitori, decodificatori e cablaggi; unità neuronali centrali , intermedie e terminali costituite da una marea crescente di computer ( grandi e piccoli) a vita breve e in continua evoluzione. Tutto ciò comporta costi energetici e ambientali assai elevati per la loro costruzione, lo smaltimento e riciclaggio, anche se -con la globalizzazione- essi si possono più facilmente occultare.
L’impresa é così riuscita ad esternalizzare anche i costi energetico ambientali che seguono la propria riorganizzazione su scala mondiale. Il suo impatto sul territorio può risultare perfino meno problematico, ma il metabolismo e l’evoluzione del suo sistema nervoso vanno continuamente rialimentati con materiali e manufatti pregiati e con tecnologie sofisticate ad alto contenuto energetico e alti costi ambientali per lo smaltimento.
Quando si pensa a Silicon Valley, dove convivono posti di lavoro ambientati tra filari di vite e parchi naturali, a questi uffici variopinti dove si concepisce il software, si deve associare l’ambiente dove si produce l’hardware che lo supporta: il mondo delle miniere, dei processi di purificazione dei materiali, delle centrali elettriche, dei laboratori asettici e condizionati per il trattamento dei chips e quello della rete di trasporti pesanti e di telecomunicazioni terrestri e spaziali che permette al software di innervare il pianeta.
Il modello fordista era costretto a ricorrere alla bonifica per affermare la sua compatibilità; quello attuale se ne sente esentato dalla mondialità.
La tradizione della sinistra non si può esaurire nel ruolo antagonista assegnatole dal fordismo e nemmeno in quello conquistato con grandi lotte, ma interno a quel modello produttivo e sociale oggi in fase di superamento. Occorre ritornare al cuore del processo produttivo, reinterpretarlo con un’analisi scientifica adeguata e delineare il progetto sociale cui ispirare lo sviluppo economico nelle nuove condizioni date. Di fronte alla rottura di un paradigma che ha impregnato di se’, oltre che lo sviluppo delle forze produttive, anche il procedere della conoscenza con un intreccio poco permeabile tra cultura umanistico-sociale e cultura tecnico-scientifica, mi sembra necessario che si metta a disposizione tutto l’arco degli strumenti conoscitivi che si sono rivelati potentissimi per l’affermazione del sistema globale.
Di essi reputo particolarmente rilevanti l’uso dei modelli e la compenetrazione tra le scienze sociali e i risultati conseguiti dalle scienze fisiche e naturali.
Manca tuttora uno schema di analisi esauriente, anche se il libro di Ingrao e Rossanda ed un numero crescente di tentativi e di proposte in parte riportati nella bibliografia, lasciano sperare in un percorso nuovo, non più solo adattivo. E’ tempo di portare a sintesi uno sforzo articolato, che rompa col ripiegamento di gran parte della sinistra europea sui temi della governabilita’ o della conquista tattica del centro, che monopolizzano l’attenzione e comprimono la sua capacità progettuale.33
Si tratta di una direzione di marcia individuata, ma non ancora sostenuta da quella compenetrazione tra cultura politica e cultura economica (allora industriale) e dalla individuazione di un blocco sociale, che hanno caratterizzato la fortunata analisi di Gramsci. Si è ancora schiacciati sulla reazione un po’ sgomenta ai fenomeni nuovi che hanno provocato, assieme a ritardi da colmare, anche sconfitte brucianti.
Di conseguenza, nei tentativi in corso c’e’ ancora traccia di un politicismo esasperato e ripetitivo o di un eccesso di neoeconomicismo. Lo stesso schematismo e il rischio di riduzionismo, che traspare da queste note, cercano di trovare una spiegazione ai processi di modernizzazione e di razionalizzazione della produzione e della tecnica. Se essi fossero trascurati, male interpretati o ricondotti meccanicamente entro le categorie di analisi che hanno contraddistinto una fase dello sviluppo in cui la sinistra ha colto indubbi successi, ma che è ormai superata, sarebbe più difficile innescare e liberare una risposta sociale di vasto respiro. Abbiamo davvero bisogno di un dibattito intenso e comprensibile e di un intreccio coraggioso di proposte e di tentativi di riorganizzazione, in cui la dialettica di posizioni non venga preventivamente soffocata dall’autorevolezza degli “specialisti” o scoraggiata dai giudizi di quanti sono semplicisticamente propensi a ricondurre al tradimento le ragioni delle sconfitte sul campo. Anche così contribuiremo a sollevare il dibattito politico da un assillo solo tattico e contingente e ad arricchirlo di rigore e creatività.
Diverse sono le culture, di uomini e di donne, che possono contribuire ad una ricerca, che superi i ritardi e fornisca i criteri per nuove aggregazioni. In questo senso si stanno muovendo alcune iniziative internazionali, come ad esempio il documento dei 35 intellettuali francesi, che ha ottenuto consensi da più parti d’Europa e che, pur nel suo schematismo e con le sue lacune, costituisce una rilevante novità di metodo e di approccio.34
Ci stiamo avventurando in un “mondo in cui non sappiamo dove il nostro viaggio ci condurrà”,35 ma possiamo accrescere la nostra consapevolezza e cercare risposte comuni.
Lavoro, comunicazione e relazioni (nel senso di attivazione della socialità), riorganizzazione accesso e distribuzione dei saperi e delle conoscenze, riappropriazione del tempo, valorizzazione e riconoscimento dell’autonomia della natura, rilancio delle basi sociali del welfare, allargamento della democrazia, mi sembrano i punti di partenza irrinunciabili cui ancorare un’idea alternativa di sviluppo economico e sociale.
O, se si vuole, i grandi temi su cui giocare la scommessa dello Stato moderno di “limitare le ragioni dell’economia a vantaggio di quelle della società”.36
Comunque, prima ancora di muoversi coerentemente per obiettivi alternativi, oggi ostacolati dall’ossessiva ricerca di competitività su scala mondiale, e di delineare un vero e proprio programma, occorre convenire sulla portata dei cambiamenti in atto e su un’analisi comune che sembra ormai consolidarsi, fino a riscuotere consensi sempre più larghi. Ad essa queste note intendono portare un contributo.
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