di Mario Agostinelli e Bruno Ravasio
Ogni giorno una notizia peggiore sposta la precedente nella disinvoltura con cui la politica cavalca un presentismo eterno che non viene mai scalfito da uno sguardo al futuro. Un futuro, come afferma Alberto Burgio su questo giornale, che non solo inquieta, ma che dovrebbe costringere tutte le forze in campo ad una agenda con ben altre priorità rispetto alle attuali. In un continuo gioco degli specchi, deformati dalla stampa e dalla velocità della comunicazione, non risulta più importante quel che realisticamente ci aspetta, ma quando finalmente il contesto dell’oggi subirà un tangibile e, ci si augura, provvidenziale mutamento. Ma, dato che la crisi è ben più profonda delle ricette in prova, si direbbe che l’azione più redditizia per poter transitare dall’adesso al dopo sia la rimozione. Così Orban costruisce muri infiniti per scampare dall’immigrazione (come Israele fa da sempre ai confini della Palestina); Vals cancella le organizzazioni del lavoro sperando in una ripresa consegnata al padronato (come la Thatcher teorizzava contro le Unions); Temer sopprime il Parlamento abbattendo la prospettiva di una crescita di democrazia sociale in Brasile (come Putin ha già realizzato in Russia): insomma, ovunque passi indietro già ampiamente sperimentati, ma spacciati sotto il segno del cambiamento necessario e perciò sostanzialmente tollerati o giustificati anche da buona parte dell’opinione pubblica. Se ci si guarda intorno non c’è da stare allegri: offuscamento del diritto universale della pace mentre si avalla la guerra permanente, autoritarismo sotto la specie dell’efficienza, rottura dei patti sociali sotto il ricatto della mancanza di lavoro: tutti tratti che sembrano diffondersi senza scandalo sul pianeta e che turbano davvero solo quando assumono la fisionomia turgida e spavalda di Trump. La sconfitta del lavoro, ancorché per alcuni di noi non ancora definitiva, dovrebbe allora richiamare alla mente giudizi più radicali sulla strategia che la vorrebbe definitiva e che, con modalità articolate punta a renderla irreversibile
Vogliamo allora una buona volta contestualizzare l’attacco alla Costituzione da parte di Renzi all’interno di un conflitto organico, di portata non banalmente “cosmetica” o “revisionista” sotto il puro profilo dell’efficienza – come si tende da troppe parti ad avallare – altrimenti non si capirebbe la premura con cui auspicano al cadere delle foglie la prevalenza dei SI i grandi fondi multinazionali, i gruppi finanziari e le banche mondiali, gli ambasciatori più conservatori, i governi che hanno schiantato con l’austherity la Grecia di Tsipras e l’Europa sociale? Vogliamo cogliere, sotto il profluvio di modifiche e di capoversi in cui ci si confonde, cosa ne sarà della democrazia sociale voluta dai costituenti e praticata dalla sinistra e dal sindacato nelle lotte che hanno portato civiltà democratica – altro che ingovernabilità! – a questo Paese?
Noi abbiamo una non banale e lunga esperienza nella CGIL e abbiamo imparato, tra scioperi, assemblee e vertenze, assai più formativi della lettura dei tweet quotidiani, come e quanto l’asimmetria nel rapporto di lavoro si poteva recuperare solo quando il pluralismo sociale era legittimato nel Parlamento, con intatti poteri di rappresentanza. Quante volte le vertenze più dure, i contratti più combattuti, i diritti più innovativi non si risolvevano solo nei rapporti di forza entro i luoghi di lavoro, ma rimbalzavano nelle interrogazioni di senatori e deputati, nelle commissioni parlamentari, nel coinvolgimento del Governo che ne doveva rispondere, di qualunque colore fosse, all’assemblea degli eletti e, “giù per li rami” ai consigli regionali e comunali dove assitevano lavoratrici e lavoratori in carne e ossa. Ora, vorremmo sottoporre innanzitutto all’attenzione del mondo del lavoro che si recherà a votare sulla legge Renzi-Boschi la questione per noi di fondo: in questa fase delicatissima dello sviluppo storico economico e sociale è forse senza conseguenze spostare dal Parlamento al Governo i poteri di indirizzo e di garanzia dei principi e dei valori sociali della Costituzione? A poco varrebbe mantenere inalterata la Prima Parte, se nella Seconda viene organicamente previsto il superamento del governo parlamentare a sovranità popolare, per approdare – con l’ulteriore suggello dell’Italicum – ad un Governo dei designati che predomina sull’attività di Camera e Senato.
Forse è sfuggito a molti commenti il significato della costituzionalizzazione del primato del Governo sul Parlamento nel definire l’o.d.g. e la via preferenziale delle leggi che attuano il suo programma. Paradossalmente, per l’intera legislatura si potrebbe legiferare solo su iniziativa del Governo. Ma se un “governo del capo”, predomina sul Parlamento e, quindi, sulla rappresentanza dell’intera società è il lavoro che ne subisce le conseguenze più pesanti. L’efficacia delle lotte sindacali e la dialettica democratica si esplica se c’è rappresentatività delle organizzazioni che le dispongono in luoghi che hanno intatto il loro potere. Non sono la stessa cosa un incontro concesso dal Governo ai Segretari Generali del sindacato all’interno della propria iniziativa o la richiesta di audizione e consultazioni da parte delle organizzazioni sindacali in un Parlamento eletto a suffragio universale!
Sono due i punti chiave contemplati dalla revisione costituzionale sottoposta a referendum che stiamo contestando:
- Il dominio del governo sul parlamento, inserito di soppiatto nella “revisione costituzionale”, nel rigo 27 dell’art. 12, dove si assegna al governo il potere di chiedere all’organo del “monocameralismo”, cioè alla Camera, di deliberare che “un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’o.d.g. e sottoposto alla votazione finale del Parlamento entro 60 giorni dalla richiesta”. In questo modo viene introdotta l’alterazione della forma di governo parlamentare, mediante il ricorso ad un metodo discriminatorio tra governo e parlamento e le forze politiche.
- La sudditanza/abrogazione del Parlamento rispetto al Governo titolato a stabilizzare e a garantire i principi e i valori sociali della nostra Costituzione e, quindi, con essi, il diritto di pace, proprio della democrazia sociale. Ciò aprirebbe la strada al diritto di guerra come esclusiva del governo.
Pensiamo al diritto di pace, non come rinuncia alla guerra, ma soprattutto come valore indispensabile a rifondare i rapporti sociali nei singoli stati e nel mondo, oggi irrinunciabile e determinante, anche a fronte della questione climatica, dei rifugiati e del diritto ai beni comuni.
Questi aspetti così centrali sono quasi unanimemente trascurati nel dibattito in corso e a queste riflessioni occorre conquistare giovani, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini che aspirano ad un futuro di giustizia. Restringere la politica al potere del governo, corrisponde ad una riduzione di democrazia, intesa come l’agorà della dialettica libera tra le parti sociali e politiche di cui c’è bisogno assoluto per fare della partecipazione una risorsa.