Mario Agostinelli
Attualità e valore politico dei movimenti
Interpretare il ruolo e individuare il contributo dei movimenti in questa fase sociale e politica richiede uno sforzo di sistemazione di differenti esperienze, di autonomie così cariche di identità, da sfuggire a criteri di descrizione univoca. Non potendo nello spazio di un editoriale rendere conto appieno di un fenomeno tanto esteso, che va dal femminismo, ai diritti civili, fino alle lotte del lavoro, mi limiterò, orientativamente, a quell’universo che sottende ai diritti sociali, all’ambiente, ai beni comuni.
E’ mia convinzione che, a distanza di un decennio, la sinistra insista nel leggere la novità dei movimenti dopo Seattle, Porto Alegre e Genova, le modalità con cui agiscono e appaiono e scompaiono e i terreni inesplorati che percorrono, con la convinzione di avere comunque le risposte già adatte dentro il suo bagaglio genetico-culturale spiccatamente nazionale. Questa presunzione porta a sottovalutare quanto si consolida senza clamore a livello diffuso e a esaltare o deprimere solo gli eventi più eclatanti, a seconda che rientrino nelle categorie di giudizio di cui ci si sente eredi e depositari. Così, un insieme di movimenti di incredibile innovazione e posto, nonostante le sue articolazioni, dritto al cuore delle trasformazioni in atto, talvolta più profonde delle nostre radici, finisce col non produrre la necessaria ricaduta politica nelle forze e nelle organizzazioni che lo vorrebbero rappresentare.
Rifondazione Comunista ha senza dubbio investito di più nella sfida di misurarsi e di trasformarsi dal basso: ora, dopo anni di vivace dibattito interno, sembra anch’essa rivolgersi a schemi ereditati dal passato, riscoperti e rimessi al confronto dogmaticamente. Ne esce un contradditorio a colpi di interventi, articoli e interviste tra dirigenti di partito di diversa ispirazione e leader “storici”di movimento, prevalentemente a valle di avvenimenti e decisioni. E’ come se, anche tra le forze più innervate nella società e più sensibili allo stare in campo dei movimenti, non ci si accorgesse del venir meno di quelle “antenne” così preziose nelle organizzazioni di massa, che promuovevano feconde previsioni in anticipo, piuttosto che acidi scontri a fatti compiuti.
Non si tratta solo di qualche episodio, come l’errore del presidio romano nel giorno della visita di Bush, ma di una difficoltà a inserire i singoli episodi del conflitto sociale in una continuità dei suoi obbiettivi e in una unitarietà delle sue articolazioni, compresa quella del lavoro, vissuta come marginale anche in parti del movimento. Manca quella che Petrella definisce una “narrazione”. Una capacità, cioè, di ricondurre teoria e prassi ad una visione della storia ed a valori comuni essenziali, esplicativa di un futuro alternativo – o delle alternative – riconoscibile, praticabile, assumibile da diversi soggetti in diversi luoghi e a scadenze successive.
In effetti, con un insufficiente adeguamento di due grandi narrazioni – quella socialista-comunista e quella democratica-antifascista – rispetto alle novità della globalizzazione liberista e la contemporanea perdita di centralità del lavoro, la destra, almeno in Europa e in tutto l’Occidente, ha acquisito un vantaggio quasi incolmabile nell’imporre un “suo” futuro, dai risvolti di massa regressivi (si pensi alla corruzione delle culture asiatiche, all’implosione dei Paesi dell’Est, alla diffusione del razzismo e della xenofobia in tutto il nostro continente e all’involuzione del nostro Nord) e riservando ai conflitti sociali e di classe uno spazio residuale, irrimediabilmente protestatario e prevalentemente oppositivo.
Nei primi anni del 2000, la speranza sollevata dal “movimento dei movimenti”, con i suoi appuntamenti mondiali nei Social Forum, di estendere, riunificare e dislocare le lotte sul terreno della proposta, aveva in parte supplito alla crisi della sinistra politica e aperto la strada, oltre che ad inedite esperienze governative in America Latina, ad una permeabilità dal basso delle istituzioni in più parti del mondo. Questo processo non si è concluso e, anzi, si estende in continenti come l’Africa e prende visibilità, tra la sorpresa generale, perfino negli USA. In Europa ed in Italia, tuttavia, sembra cedere il passo, soffocato dalla dinamica delle coalizioni e inghiottito da un’antipolitica montante. Sbaglieremmo però a usare una lente locale e provinciale, tutta interna alla crisi nazionale di cui risente certamente tutto il corpo sociale, per giudicare una fase che non si può rinchiudere in recinti che, al contrario, sono di continuo attraversati da interrelazioni e effetti di reciprocità. Nemmeno una manifestazione come quella del 25 Aprile può più essere separata dall’evocazione di Genova o di Nairobi, come attestavano i cartelli innalzati a Milano dai giovani e dagli immigrati in corteo o il canto di “Bella Ciao” nelle strade di Korogocho al Forum del 2007.
Di seguito provo quindi a esaminare la fragilità, ma anche la forza sotterranea dei movimenti del 2007, a partire dal nostro Paese, avanzando la tesi ottimistica che sia in formazione avanzata e ormai irreversibile una narrazione estranea al pensiero unico, forse più vicina a vedere la luce sulle questioni del clima e dei beni comuni, più incerta sui temi del lavoro, più in affanno sugli strumenti della democrazia adeguati alla bisogna. E’ questa convinzione che mi fa pensare che la riunificazione della sinistra sociale e politica oltre Rifondazione sia non solo un grande progetto, ma una necessità del tempo immediato, a cui è impossibile sottrarsi dal basso. Infatti la società, almeno quella che si colloca a sinistra, si sente più direttamente partecipe di una visione globale, in cui l’urgenza dei problemi è drammaticamente percepita e esige una base narrativa comune. Le incertezze che invece si impossessano del ceto politico non sono solo il risultato di pigrizia, ma hanno una loro origine culturale nella dimensione tutta nazionale in cui si svolge ancora il confronto tra partiti, incapaci di rispondere a quel contesto locale-globale in cui si rimette in moto effettivamente la collettività del nuovo millennio. Il rischio è così di avere un approccio separato tra “base” e “vertice” e di insistere dall’alto a perseguire burocraticamente cartelli elettorali tra formazioni immutate, le cui bandierine trascinate dal passato rassicurano chi dovrebbe uscire in mare aperto.
Una lettura dei movimenti e dei conflitti non viziata da pregiudizi e, come dicevo, attenta alle linee “sotterranee” della mutazione in corso, può contribuire certamente a comportamenti efficaci per quel rinnovamento politico di cui c’è la massima urgenza.
Considererò realtà ed esperienze tra loro apparentemente lontane e di intensità e rilievo diversi, che concorrono tuttavia ad una comprensione più ampia del grado di conflitto e di partecipazione presente in una società per niente pacificata e non rappresentata da un sistema che, con i suoi artifici elettorali, ha purtroppo contribuito alla crisi della democrazia e alla conseguente frammentazione rivendicativa.
1) Una fase adulta dei “comitati” sul territorio
A distanza di qualche anno dalla loro nascita, alcuni movimenti a forte caratterizzazione territoriale hanno superato la loro connotazione localista individuando categorie più ampie entro cui inquadrare le loro rivendicazioni e tessere in una rete di sinergie collegamenti duraturi tra esperienze similari. E’ il caso, ad esempio, delle lotte territoriali contro le centrali, le discariche e gli inceneritori, sui danni del traffico, sui disagi dei pendolari, contro la chiusura di presidi sanitari, per il potenziamento del welfare locale, contro l’emarginazione e il disagio. Diffusissime, valorizzano forme di democrazia diretta per contrastare le privatizzazioni e il saccheggio del territorio, operando come insediamenti specifici alla ricerca di legami sociali, di trasparenza e diritto all’informazione, di conoscenze tecnico-scientifiche e di collegamenti con il mondo della scuola e con gli specialisti della ricerca. I loro portavoce si mantengono in contatto diretto, si scambiano le presenze alle assemblee, organizzano siti web e un’informazione parallela che esula dai circuiti dei quotidiani nazionali, ma alimenta le pagine locali e i fogli alternativi. I destinatari di rivendicazioni spesso molto aspre sono soprattutto i governi regionali, chiamati a rispondere delle loro decisioni “dalla piazza” che si mobilita, quando sono solo debolmente contrastati dall’impotenza delle opposizioni nelle istituzioni consiliari.
La Lombardia è densa di questi “comitati”e, per esperienza diretta, non c’è riunione del Consiglio che non registri rumorosi e colorati presidi esterni; la Campania e le regioni meridionali ospitano nei loro territori addirittura rivolte popolari vere e proprie.
A fronte di una capacità tematica di messa in rete delle diverse realtà, preoccupa un certo distacco del movimento sindacale territoriale, che si limita, quando c’è, a presenze di appoggio alle maggiori manifestazioni. Qui emerge uno dei punti di difficoltà: il mondo del lavoro, tranne eccezioni, sembra procedere sulle questioni territoriali ancora su binari separati, con una reciprocità di distacco da parte dei movimenti nei confronti delle rivendicazioni propriamente sindacali. I due mondi non si fondono appieno sul territorio: l’uscita dal luogo di lavoro è tuttora impervia, a conferma di una difficoltà non risolta, che impedì già nella fase di massima forza sindacale che i Consigli di Zona decollassero realmente.
Questi movimenti diffusi registrano comunque forti discontinuità: seguono, conformandosi, l’acutezza dei problemi e la parzialità delle soluzioni; eppure stabiliscono una presenza carsica che riaffiora quando sul territorio nasce una lotta nuova o quando vengono fissati appuntamenti di rilievo: sono luoghi di formazione di gruppi dirigenti locali e di crescita partecipativa sostitutivi di quelli tradizionali.
Nei casi di maggiore resistenza e capacità creativa, alcune realtà locali acquistano una funzione emblematica, che esce dai confini propri ed entra nell’arcipelago delle lotte che acquistano tanta autonomia e tale continuità da rappresentare i semi riconosciuti di una alternativa antiliberista. Autorappresentazioni di valori contrapposti a quelli dominanti – come nel caso di Val di Susa, Scanzano o Vicenza – queste realtà sono ormai giunte a stringere tra loro patti di solidarietà a reciproco sostegno. “NO TAV” e “NO Dalmolin”, in particolare, stanno costituendo un esempio così eclatante, da contrapporre una propria “narrazione” all’ondata contraria di tutti i grandi media e da lanciare, partendo dal fatto locale, un messaggio globale immediatamente e ovunque riconoscibile. Quando scatta questo innalzamento di livello, anche la separazione del mondo del lavoro e di altri soggetti sociali non ha più luogo e la ricomposizione produce un fatto politico che oltrepassa la vita e la estensione spaziale dei movimenti. Perciò la manifestazione del 17 Febbraio a Vicenza, quelle ripetute anche nelle ultime settimane nella Val di Susa e, per certi versi, proprio a seguito della forte tensione popolare, i blocchi di Maggio e Giugno delle discariche campane, aprono comunque tali prospettive di discontinuità, che i governi non sono in grado ormai di respingere in base a pure maggioranze istituzionali le piattaforme sostenute e condivise con indubbio consenso dalle popolazioni.
2) Riorganizzazione dei movimenti senza il lavoro?
I movimenti oggigiorno hanno una tale permeabilità alla dimensione globale, da rendere difficile una valutazione del loro successo solo a livello di un paese o di una regione del pianeta. Oggi la crisi del Social Forum Europeo e della sua sezione italiana appartengono al senso comune. Io penso invece che l’appannamento di una direzione autorevole corrisponde alla originalità, al radicamento territoriale e alla diffusione dei movimenti, che non sono più riconducibili sotto le sigle e i leader che hanno lanciato la fase passata. Alcuni aspetti contradditori avrebbero dovuto rendere più cauti nell’assimilare ad una caduta verticale quella che mi sembra invece una faticosa diffusione capillare. Certo, si perde in capacità comunicativa, ma si guadagna in consolidamento e in pluralismo, dando vita ad un rinnovamento generazionale di cui c’è assoluto bisogno. E infatti, le manifestazioni del 2 Giugno a Rostock ci hanno riconsegnato grandi masse per nulla rassegnate, molto sicure di sé, al punto da oscurare l’interessata messa a fuoco delle TV sulla presenza dei “black block”.
Analogamente, mentre nasceva nell’indifferenza dell’opinione pubblica nazionale, il Social Forum 2007 di Nairobi registrava sorprendentemente una ricchissima presenza italiana, ben superiore alle previsioni degli stessi organizzatori. Inoltre, il ruolo in esso dei comboniani Zanotelli e Moschetti si è rivelato centrale non solo per la loro attività negli slums africani, ma per le loro feconde relazioni con il movimento italiano e le ricadute prodotte nelle nostre città, dove in questi mesi sono state tenute continue e affollatissime manifestazioni sulla povertà, sull’AIDS, sull’emigrazione, sulle guerre africane.
Difficile quindi interpretare come scomparsa del movimento quella che è una sua riorganizzazione, che avviene in una mancanza di ascolto del livello politico e in una disattenzione indotta nell’opinione pubblica, l’uno e l’altra ridotti a sperare che la crisi di consenso venga recuperata da leader popolari o dall’ingegneria elettorale. Sta alla politica recuperare un rapporto con una vitalità sociale irriducibile, ma che si perde in mille rivoli perché non si coagula su progetti efficaci di discontinuità e non trova rappresentanza adeguata.
Se dovessi esprimere una preoccupazione sullo stato del movimento, la riserverei alle incomprensioni e alla tiepidezza che, a parte l’esempio della FIOM e di alcune Camere del Lavoro, sembrano riaffiorare tra sindacati confederali e quei soggetti sociali che con un loro percorso autonomo si oppongono alla restrizione dei diritti sociali, alla privatizzazione dei beni comuni e al saccheggio del patrimonio naturale. Qui c’è un nervo scoperto, un’alleanza incompiuta, che potrebbe essere ancor più messo a nudo dall’affermarsi del Partito Democratico. Se il sindacato dovesse proprio ora farsi condizionare dalle incertezze del governo e autolimitare la sua autonomia, data la storia e il ruolo che ha per la vita democratica italiana il movimento operaio, la partita si farebbe complicata e l’insieme del movimento ne risentirebbe profondamente.
C’è una questione decisiva di democrazia e di rappresentanza politica e sociale del lavoro su cui ha già insistito nel numero precedente Tiziano Rinaldini e da cui non si può prescindere. Anche la solitudine operaia, che io annoto con grande apprensione, potrebbe avallare un rifiuto a farsi rappresentare, rendendo visibile una presenza dei lavoratori solo attraverso l’indifferenza, come nell’astensione al voto così massiccia al Nord. Anche i segnali venuti dalla Fiat (assemblee e cortei interni) sembrano un ultimo avvertimento, che, se non ascoltato, non potrà che pesare sull’esito di tutte le lotte sociali. Il tempo in politica passa molto velocemente. La solida serenità della intensa e, come sempre, affollatissima manifestazione del 25 Aprile a Milano, sembra ormai distante dall’esito elettorale dell’Unione nella cintura milanese, dove sono crollate amministrazioni come Abbiategrasso, San Donato, Garbagnate e Monza sotto i colpi di un autentico “movimento” restauratore , che faceva le sue prove discrete ai comizi elettorali punteggiati di signore e di giovani come nella Francia di Sarkozy. E le piazze del Primo Maggio, quando l’Italia si è raccolta attorno ai morti sul lavoro, gremite come a Torino di centomila persone, potrebbero aver pronunciato invano lo slogan “L’Italia riparte dal lavoro”, se i risultati sulle pensioni e il risarcimento sociale non sembreranno il frutto di un mandato dei lavoratori democraticamente rispettato dal sindacato.
3) Il primato della vita sull’economia
Un tratto nuovo che accomuna lo sforzo delle campagne e delle mobilitazioni più recenti sta nella affermazione di un primato della vita sull’economia, in totale rottura con l’ideologia della crescita che ha soffiato sull’espansione delle merci della civiltà industriale. Ma se Marx non prescindeva mai dal conflitto capitale lavoro anche quando prospettava una relazione non più distruttiva tra attività umana e natura, la questione della vita ai nostri giorni viene colta prevalentemente come rischio di sopravvivenza della specie e della civiltà a seguito della distruzione di risorse naturali, di saperi e socialità, differenze biologiche e culturali. Una dissipazione dovuta ad uno sviluppo irresponsabile che chiama in causa innanzitutto i comportamenti individuali e la qualità della relazione dei singoli viventi con la natura, mentre i rapporti capitalistici di produzione sono mantenuti sullo sfondo, come stadio successivo di una presa d’atto che fa appello all’allarme di singole coscienze, prima che a soggetti collettivi. Se si vuole, questo limite è facilmente confutabile, ma sarebbe sbagliato trascurare il fatto che il degrado in atto e la minaccia alla biosfera non richiamano automaticamente una risposta socializzante e che questo compito è tutto della politica, che deve tener conto della mancanza sulla scena sociale e politica di soggetti attorno cui ancorare un progetto alternativo per la sopravvivenza della civiltà umana. Le sconfitte del movimento operaio e l’individualismo del volgere del millennio non se ne andranno senza lasciar traccia e la ridefinizione di un patto sociale avanzato tra soggetti collettivi è tutto da contendere: basta riflettere sulla popolarità e sul successo del messaggio moderato di Al Gore sulla crisi climatica. Il bene comune e la ricostruzione di soggetti in lotta per esso fanno parte dei lavori in corso. Un orizzonte unificante delle lotte è il problema che si pone e che nemmeno i movimenti possono risolvere da soli: è comunque posto con caratteristiche differenti dal Novecento e, fortunatamente, non può più essere rimosso. Se ne rendono conto sia Rossana Rossanda quando si duole dei radicalismi frammentati che agitano la società, sia Wolgang Sachs, quando afferma che senza giustizia sociale crollerebbero l’ecologismo e qualsiasi politica dei beni comuni.
Difficile oggigiorno rifarsi ad un unico attore della trasformazione, mentre è indifferibile una contaminazione tra soggetti e culture. E, a mio parere, non è procrastinabile innanzitutto la riunificazione dei conflitti del lavoro con tutto quanto sul territorio contrasta un consumo di vita che ne impedisca la riproduzione. Delineare un futuro diverso per soggetti e classi sociali che riconquistano una loro identità e superare l’orizzonte solo redistributivo delle rivendicazioni per contrastare la riduzione a merce di tutto quanto anche di vivente ci circonda, è forse il contributo più grande che in questo momento il movimento – maturo nella percezione della svolta necessaria, ma incapace da solo di coagulare una rappresentanza – può dare al rinnovamento di programmi e orizzonti della politica. Nel nome dei diritti civili e sociali e’ possibile che nella categoria della biosfera si affrontino temi nuovi per la tradizione del movimento operaio (il cambiamento climatico, i beni comuni, la rinnovabilità, la sobrietà degli stili di vita, la nonviolenza), riconsiderando sotto una luce qualitativa le quantità impersonali della geopolitica (le guerre “necessarie”, le “regole” dei mercati mondiali, il debito, la ricchezza delle nazioni, la competizione globale). Si tratta davvero di un cambio di linguaggio e di una ricostruzione del rapporto politica-società-vita in grado di affrontare anche il gap generazionale e la mancata trasmissione di memoria, che affligge la sinistra politica e sociale e che ha già dato frutti positivi nel caso dei movimenti per i beni comuni. Come è già avvenuto per l’acqua pubblica ed è in cantiere per l’energia e il clima . E’ bene ricordare che sull’acqua si è dato vita nel 2007 ad una campagna che, per estensione e partecipazione, può essere uguagliata in Italia solo dalle consultazioni organizzate dai sindacati nei luoghi di lavoro.
Qualche considerazione
Quella “narrazione” che reclamavo all’inizio comincia a prendere corpo. Ad esempio, tra il movimento per la pace e quelli sui beni comuni è in atto un forte interscambio, sotto il segno del disarmo, del superamento delle fonti fossili, della riduzione dello spreco. E’ già possibile cointeressare il lavoro e il mondo della produzione a queste novità se ci si muove sul terreno delle proposte concrete e in un disegno antiliberista di politica economica, come nel caso di progetti di riconversione dell’industria bellica e nel quadro di politiche industriali a sostegno della filiera delle energie rinnovabili e dei beni comuni e per prodotti socialmente e ambientalmente desiderabili.
Ci sono già appuntamenti che hanno assunto dimensioni impressionanti, come quelli primaverili di “Failacosagiusta” a Milano o di “Terra Futura” a Firenze. Con modalità di autoorganizzazione molto flessibili e aperte e secondo lo schema della “fiera”(esposizioni, confronti, scambi), si sono ritrovate a discutere e a verificarsi migliaia di realtà disperse e minute, ma fortemente impegnate in progetti alternativi, ispirati alla sobrietà dei consumi, al risparmio di materia e energia nella produzione, alla chiusura entro il territorio dei cicli biologici e naturali. Queste scadenze annuali (e la loro preparazione), come altre analoghe, sono già l’occasione per un interscambio ravvicinato su un terreno finora inesplorato tra i movimenti della società civile e le formazioni politiche e le istituzioni che si rinnovano.
So di aver messo in fila una rassegna e di aver scelto di illustrare valutazioni e osservazioni con una dose di parzialità: la ragione che mi ha mosso a farlo è che la loro emersione in prospettiva non è meno importante della crisi o delle difficoltà delle forme più tradizionali e più note di organizzazione e di rappresentanza.
Un’ultima notazione. Le generazioni precedenti a quelle attuali avevano percepito il tempo come il trascorrere lineare di fasi e successioni inevitabilmente in crescita, portatrici di più prodotti, più ricchezza, più possibilità di redistribuzione, più benessere. Al contrario, questa generazione conta il tempo a ritroso: vengono previste date – tra 30, 50, 80 anni – entro cui aspetti vitali potrebbero venir meno, se non si dovessero introdurre prima drastici cambiamenti . E’ anche da qui che viene dai movimenti del nuovo millennio una radicalità ed una urgenza che si trasmettono come imperativo alla politica, anche se si trovano in contrasto con la gradualità, la pazienza e in fondo l’ottimismo incoffessato con cui il movimento operaio ha ritenuto in Europa di perseguire obiettivi di trasformazione aspettando il sol dell’avvenire.